venerdì 3 marzo 2023

Jean Dumont, I falsi miti della Rivoluzione francese

 1. PERCHÉ RIFIUTIAMO DI CELEBRARE LE MENZOGNE RIVOLUZIONARIE

 

Presa della Bastiglia da parte del popolo

Si è trattato in realtà di sparuti gruppi di vagabondi e di disertori, che cercavano munizioni (armi), il popolo francese si è tenuto alla larga.

I capi rivoluzionari fanno solo dopo la loro comparsa, quando comincia lo sfruttamento politico. Non si è trattato di nessuna presa, ma di un ingresso dalla porta ordinato dal governatore. Infine, questo ingresso non ha avuto alcun significato nella storia della libertà, in quanto nella Bastiglia non veniva custodito nessun prigioniero politico e quindi la sua “presa” non ha liberato nessuno.

 

Epopea dei volontari dell'Anno II

Di questa “epopea” non smettono di riempirsi la bocca gli oratori politici, anche quelli che parlano per la destra, come Andrè Malraux quando ha celebrato la nascita della Quinta Repubblica nel 1958, a Place de la République a Parigi. (….)

I volontari furono «volontari obbligati» che scelsero in maggioranza sia la ribellione che la diserzione: vi sono stati 800.000 disertori su 1.200.000 chiamati alle armi nel 1794[1]. Inoltre questi pretesi volontari furono anche volontari comprati dall'autorità a prezzo molto elevato, scelti fra i vagabondi, da cui il soprannome di «eroi da 500 lire» (…) che venne dato loro dai vandeani, anch’essi «volontari obbligati» ribelli.

La pessima qualità di queste truppe ha prodotto una delle più spaventose carneficine della storia militare francese: nei primi mesi «200.000 vite umane sprecate», nota Pierre Chaunu[2].

 

Pretesa di «modernizzazione decisiva» portata dalla Rivoluzione

«Infatti (…) il decennio 1789-1799 rappresenta una catastrofe nazionale per la nostra economia d’avanguardia»[3].

Quest’ultima – favorita nel 1786 dal progetto del Mercato Comune iniziato sotto la monarchia con il trattato di libero scambio con l’Inghilterra – frana sotto la Rivoluzione. Bisognerà attendere i tempi “riparatori” della monarchia restaurataperchè i nostri scambi con l’estero, in un secolo XIX ampiamente cominciato, ritornino all’alto livello prerivoluzionario del 1788»[4]. Per l’esattezza bisognerà attendere l’anno 1825, durante il regno di Carlo X. La Francia avrà così accumulato più di un terzo di secolo di ritardo nello sviluppo economico e nel commercio internazionale, un ritardo che non ha mai più recuperato.

Lo storico di Cambridge D. W. Brogan ha scritto che, molto probabilmente, se non vi fosse stata la rivoluzione la Francia sarebbe stata alla testa dell'espansione economica dalla fine del secolo XVIII, ruolo che ha lasciato all'Inghilterra. È quanto constata all’epoca proprio un testimone inglese, il deputato Edmund Burke, osservatore delle vicende economiche e politiche, che scrive: "I francesi si sono dimostrati i più abili artefici della rovina che mai siano esistiti al mondo.  Hanno interamente distrutto il loro commercio e le loro fabbriche. Hanno fatto i nosti interessi, a noi che siamo i loro rivali, meglio di quanto venti battaglie (…) non avrebbero mai potuto fare".

 

La menzogna di un popolo al potere

La Comune del 10 agosto 1792 è costituita da un’esigua minoranza di attivisti che distrugge la monarchia, instaura la Repubblica ed esercita la dittatura dell’Anno I. Ora (…) Braesch ha mostrato che, dei suoi 176 membri iniziali, soltanto  soltanto due sono operai. Tutti gli altri soo borghesi, artigiani e intellettuali, oltre a tre militari.

Fra i loro capi, nota Pierre Gaxotte, «il presidente Hueguenin è un concussionario, Rossignol un assassino, Manuel ha rubato, falsificato e venduto la corrispondenza di Mirabeau: Hebert, controllore a teatro, è stato licenziato dai variétés per borseggio, Panis è stato cacciato dal Tesoro reale per appropriazione indebita».

A quel tempo esistevano i campagnonnages, organismi che raggruppavano l'élite operaia. Dopo che la rivoluzione sopprime tutte le associazioni operaie con la legge Le Chapelier, i Pierre Compagnonnages, «caduti in sospetto, (…) si rifugiavano una volta di più nella clandestinità» (…). Essi potranno rifiorire, come del resto l’economia, con il ritorno della monarchia nel 1815.

 

La menzogna della pretesa «felicità del popolo» sotto la Rivoluzione

Di fatto, la Rivoluzione è un martirologio operaio, come hanno abbondantemente mostrato gli storici di estrema sinistra. «Dal punto di vista sociale, le conseguenze dell’assegnato furono molteplici scrive lo storico comunista Albert Soboul, professore alla Sorbona —. Le classi popolari, vittime abituali dell’inflazione, subirono un aggravamento della loro condizioni di vita; compagnons e operai pagati in cartamoneta, videro abbassato il loro potere d’acquisto. La vita rincarava, l’aumento dei prezzi dei viveri produsse le stesse conseguenze della carestia»[5].

Del resto, il potere rivoluzionario — un potere borghese, come si è visto — conduce una politica sistematicamente antipopolare. Durante il famoso Anno II, «Saint-Just fa arrestare come sospetti alcuni operai in sciopero»[6] e la Comune di Parigi impone un tetto massimo salariale[7], che si traduce in una riduzione dei salari di circa un terzo. In questa situazione «le classi popolari sprofondano nella disperazione»[8]. «Uomini e donne cadono nelle strade per inedia, la mortalità aumenta, i suicidi si moltiplicano»[9]. Lo storico inglese Richard Cobb ha constatato che a Rouen, nei quartieri popolari, all’inizio dell’Anno IV, la mortalità raggiunse punte quattro volte superiori a quella normale: in questa città francese vi sono settecento morti in più al mese. Operai e operaie con i loro bambini vengono uccisi dalla fame e dal freddo[10]; a Parigi e nei dintorni, l’Anno IV si chiude con un’eccedenza di diecimila morti sulle nascite.

Il portavoce delle petizioni popolari, Jacques Roux, ha il coraggio di affermare che una simile situazione non sarebbe stata possibile sotto l’Ancien Régime (…).

Identica è la situazione per i contadini piccoli proprietari e per i braccianti. Come ha notato un altro storico comunista, Georges Lefebvre, predecessore di Albert Soboul alla Sorbona, la Rivoluzione «è costata molto cara»[11] ai contadini poveri. La soppressione dell’imposta ecclesiastica, della decima — fino ad allora a carico dei proprietari e l’espropriazione dei beni della Chiesa vanificano i considerevoli aiuti sociali che queste tasse e questi beni garantivano ai poveri in caso di maltempo, di carestia oppure per l’acquisto di sementi, e così via. La soppressione del regime signorile e della comunità rurale, la nascita della libertà di coltura e del diritto di recintare le terre, sopprimono di fatto la «comproprietà» — secondo la formula utilizzata da Albert Soboul — delle terre dei signori e dei contadini ricchi, che garantiva ai poveri i vecchi diritti comunitari, diritti di pascolo, di passaggio, di spigolatura, di raccolta delle ghiande e della legna, e così via, che permettevano ai poveri di sfruttare in seconda battuta i terreni, i prati e i boschi dei signori e dei ricchi, e così di nutrirsi, di avere un po’ di bestiame, di scaldarsi, di costruire.

 

La menzogna della pretesa di antiaristocratismo

Nel gergo rivoluzionario il termine "aristocratico" non designa un membro della nobiltà, ma un nemico della Rivoluzione. Così si considera aristocratico un operaio cattolico dell’Anjou o un contadino ribelle del Lozere.

Lo storico americano Donald Greer ha mostrato che, tra le vittime assassinate sotto il Terrore, soltanto l'8,5% appartiene alla nobiltà e dunque, il 91,5% di «aristocratici» appartiene al popolo[12].

 

La menzogna – o i limiti – del preteso «antimonarchismo» rivoluzionario

È certamente evidente che la rivoluzione ha distrutto la monarchia e ghigliottinato Luigi XVI. Ma è sicuramente falso che questo «antimonarchismo» sia stato più di un atteggiamento di circostanza della Rivoluzione, sia stato il suo vero progetto. Anzitutto nel 1789 non vi sono in Francia antimonarchici. «Nessuno, anche senza confessarlo, è repubblicano, constata Daniel Momet[13]. Non ve ne sono stati e non se ne trovano anche fra tutti i capofila degli intellettuali di allora, da François-Marie Arouet, detto Voltaire, a Guillaume-Thomas Raynal, da Denis Diderot a Jean-Frangois Marmontel, da Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert a Jean-Jacques Rousseau. Quest’ultimo parla anche dell’«insopportabile e odioso giogo degli uguali», unendosi a Voltaire che amava affermare: «Val meglio servire sotto un leone di buona razza che sotto duecento topi della mia specie».

 

La menzogna maggiore: la dissimulazione del vero progetto, cioè l’anticristianesimo

Ma, si dirà, se la Rivoluzione non è antiaristocratica nè antimonarchica, che cos’è? Essa è ciò che i suoi amici democratico-cristiani d’assalto si sono ingegnati a dissimulare fino ad oggi. Essa si spiega attraverso un mese chiave (…). Questo mese, che che va dal 7 luglio 1792 (monarchico) al 10 agosto successivo (quando viene distrutta la monarchia) rivela una specificità della rivoluzione più significativa di ogni altra, perché ribalta tutto.

 Questa specificità è l’anticristianesimo totalitario, la sola vera essenza della Rivoluzione francese e il suo unico vero progetto, iniziale e finale.

Il 14 luglio 1792 e nei giorni successivi, questo anticristianesimo totalitario, questa fede nei prodigi del sacrilegio fanno osare i gesti sistematici che abbiamo lasciato intravedere: massacri di sacerdoti che avvengono un po' dappertutto in Francia e per la prima volta nella storia della Rivoluzione. La distruzione della monarchia sarà il mezzo per garantire la generalizzazione di questi massacri di sacerdoti e l'annientamento della religione.

 

 3. PERCHÉ RIFIUTIAMO DI CELEBRARE LE IGNOMINIE RIVOLUZIONARIE

Queste ignominie rivoluzionarie, numerose e multiformi, sono l’origine specifica dei crimini totalitari moderni, il modello ben attrezzato e adattabile a cui seguiranno il Gulag sovietico e i Lager nazionalsocialisti.

• L’ignominia del Terrore poliziesco, modello della Gestapo e del KGB, e anche dei terrori folli e maniacali tipo Khmer rossi di Pol Pot. Infatti, il controllo poliziesco e la repressione sono dappertutto e in ogni istante nella vita rivoluzionaria. Il terrore poliziesco è tanto meticoloso quanto universale: «Da quando siamo liberi non possiamo più uscire dalla città senza un passaporto», viene gridato in una commedia teatrale durante la breve tregua termidoriana. Un passaporto interno? Sì, proprio come nell’Unione Sovietica staliniana. Ma questo passaporto interno evidentemente non è sufficiente. Nel comune di residenza bisogna anche poter esibire il certificato di civismo, rilasciato dal comitato rivoluzionario di quartiere, in cui risiede la feccia della società, come si è potuto osservare. Senza certificato di civismo non vi è possibilità di nutrirsi: viene richiesto dai panettieri per comprare il pane e dagli altri commercianti per acquistare gli altri alimenti. Inoltre, lungo la strada viene richiesto un passaporto sull’abbigliamento, dapprima solo per gli uomini, poi anche per le donne. Questo passaporto sull’abbigliamento deve manifestare l’entusiasmo, un entusiasmo obbligatorio perché, sotto la Rivoluzione, si è sempre «volontari obbligati». Si tratta della coccarda tricolore, resa obbligatoria per tutti i francesi e le francesi con un decreto della Convenzione del 3 aprile 1793, e con nessuna possibilità di rifiutare il simbolo, o di trovarlo poco adatto, o di desiderare ornamenti più personali. Per questa ragione molte donne la rifiutano e la Convenzione interviene di nuovo il 21 settembre 1793.

 

Passi tratti da: Jean Dumont, I falsi miti della Rivoluzione francese, Effedieffe, 1990.

 



[1] Pierre Gaxotte, La Rivoluzione francese, Mondadori, p. 418.

[2] Pierre Chaunu, La France, Parigi, 1982, p. 365.

[3] E. La Roy Ladurie, Prèface a Alfred Coban, Le sens de la Rèvolution Francès, Parigi, 1984, p. 12.

[4] D. W. Brogan, Le prix de la Rèvolution, Parigi 1953, p. 32 e pp. 38-39.

[5] Albert Soboul, Storia della Rivoluzione francese, Rizzoli, Milano, 1988, t. II p. 156.

[6] François Furet - Denis Richet, La Rivoluzione francese, Laterza, 1980, vol I, p. 302.

[7] Ibidem.

[8] Albert Soboul, Histoire de la Révolution française, Parigi, 1979, p. 156.

[9] Ibidem.

[10] Cfr. François Furet - Denis Richet, op. cit., vol. I, p. 423.

[11] Georges Lefebvre, Etudes sur la révolution française, 1963, pp. 246-268.

[12] Donald Greer, Incidence of the Terror during the French Revolution, Cambridge, 1951.

[13] Daniel Momet, Dictionnaire des lettres françaises, XVIIIe siècle, Parigi 1960.

 

martedì 17 gennaio 2023

Il significato del mito (o allegoria) della caverna

Spiegazione delle allegorie 

 

La caverna è in primis il mondo sensibile, l’impermanente mondo terreno contrapposto a quello eterno delle idee. Le sue pareti, come un impermeabile velo, impediscono la vista del mondo esterno. La caverna rappresenta l’opinione, la doxa (dal verbo dokeo, che in greco significa sembrare). Infatti delle cose mutevoli non si può avere scienza. Possiamo anche intendere la caverna come il simbolo della chiusura mentale, delle ideologie preconfezionate (le ombre proiettate dagli uomini che governano la caverna), del conformismo egoista, della prigionia dell’anima. Il prigioniero non vede solo le ombre delle cose artificiali, ma percepisce anche se stesso come ombra. Ha un’idea fallace di sé, frutto di una proiezione ordita da altri che egli non sa scorgere. La caverna è anche la visione materialistica di un mondo dove tutto è fugace e illusorio, un mondo cupo e incolore in cui manca un cielo a cui tendere. Nella caverna gli uomini vivono curvi, senza poter alzare lo sguardo al cielo.

Gli schiavi incatenati sono come dei bambini di fronte a un teatro di ombre cinesi. Scambiano la finzione per realtà. Non conoscono se stessi ma solo l'ombra di sé. Ignorano l’esistenza del mondo delle idee, convinti che il mondo sensibile sia tutta la realtà. Possiamo vedere in questi uomini l’attuale uomo massa, privo di pensiero critico e asservito al consumismo imperante.

Le catene sono l’ignoranza, la mancanza di educazione (apaideusia) e le basse passioni che ci tengono lontani dalla verità.

Le ombre simboleggiano la conoscenza superficiale delle cose, chiamata da Platone eikasia, immaginazione. Simboleggiano la vita inautentica, frutto di una rappresentazione artificiale.

Le statue simboleggiano gli oggetti del mondo sensibile la cui conoscenza è chiamata da Platone pistis (credenza);

Gli uomini che trasportano le statue sono i sofisti e i cattivi politici: i registi occulti dell’ignoranza della gente comune. Nel dialogo chiamato Sofista Platone dice espressamente che è tipico dei sofisti immergersi nel buio, nascondersi nella tenebra.

Il fuoco è il principio fisico con cui i primi filosofi spiegarono le cose. È anche un sole artificiale in miniatura, un lume fioco che ha malamente sostituito quello naturale.

La liberazione dello schiavo corrisponde all’azione liberante della filosofia (educazione = paideia) che spinge alla conversione (periagogè) dall’opinione alla scienza. La conoscenza cambia la nostra condizione, ci costringe (l'uomo viene trascinato per la salita che conduce al mondo esterno) ad abbandonare le opinioni stereotipate e a rinunciare al cieco istinto di affermazione di sè che ci tiene legati ad esse.  

Il mondo fuori dalla caverna è il mondo delle idee, l’iperuranio, il vero mondo. Il cielo e la terra possono essere intesi come lo spirito e il corpo che finalmente si sono riuniti. Per vedere il cielo è necessario assumere la statura eretta, ciò che distingue l’uomo dagli animali. La bellezza della terra e del cielo fa vibrare qualcosa nell'uomo liberato, nella bellezza del cosmo, e no più nelle misere ombre della caverna, si riflette l’essenza stessa dell’uomo. Uscire dalla caverna rappresenta quindi una rinascita. Nascere significa infatti venire dal buio alla luce. È la luce a far schiudere i semi, a far crescere gli alberi, a stimolare gli ormoni che permettono l'accoppiamento e la fecondazione. Senza la potente luce solare non ci sarebbe vera vita.

Le immagini riflesse e illuminate dagli astri sono le idee matematiche oggetto del grado di conoscenza detta dianoia, ragione discorsiva.

Il sole è l’idea del Bene, la conoscenza più alta che Platone chiama noesis. Il sole è ciò che origina e governa la vita  e rende possibile la  bellezza (senza la luce il mondo sarebbe monocromo come nella caverna) e la conoscenza. Il sole rappresenta anche l’unicità del vero. Il vero non può essere relativo, è uguale per tutti ed è ciò che ci rende davvero liberi.

Il ritorno nella caverna rappresenta il desiderio del filosofo di condividere con gli altri uomini la conoscenza della verità. Il cammino dell’uomo non è altro che un processo di unificazione, la verità è tale sono se è condivisa e universale. L’uomo che ritorna nella caverna si è liberato dagli “ismi” delle ideologie, sostituite da un profondo sentimento di pietà e da un desiderio di condivisione. L’individuo non può raggiungere un’autentica liberazione in solitudine, ma solo in comunione con gli altri.

 

L’uccisione del filosofo è il destino che viene riservato ingiustamente  (adikia) a chi si offre di liberare gli uomini dall’ignoranza e dalle basse passioni, che li tengono incatenati alla non verità del mondo apparente. Tale destino è quello riservato a Socrate. 

Naturalmente il primo significato che Platone vuol comunicare col mito è che la conoscenza è un percorso ascendente che passa per quattro gradi. I primi due, immaginazione (eikasia) e credenza (pistis), riguardano la caverna, cioè il mondo sensibile. Per questo non hanno a che vedere con la scienza ma solo con l’opinione. Gli uomini sono incatenati nella caverna fin dalla loro nascita. Non conoscono quindi l’esistenza del mondo esterno e non sono consapevoli di essere prigionieri della spelonca.

Sono invece scientifiche la conoscenza matematica (dianoia) e quella filosofica (noesis), che si trovano fuori dalla caverna.  La conoscenza è proporzionale ai 2 gradi della realtà, quella mondana e quella delle idee. Il progredire del conoscere dà luogo a un progredire morale, così come aveva insegnato Socrate (l’uomo buono è quello che conosce il bene, il male è frutto dell’ignoranza). 

Come il seme ha bisogno di affondare nella terra per poter poi innalzarsi verso la luce, anche l'uomo deve compiere l'esperienza dell'ombra per poter nascere in senso pieno. L’uscita dalla caverna rappresenta, infatti, la vera nascita, e la caverna può essere intesa come un utero in cui l’uomo è ancora un essere potenziale e dunque incompleto. Ogni nascita è però rischiosa e faticosa. Per questo l’uomo liberato, anche se ha visto le statue, continua per un po’ di tempo a credere che la vera realtà siano le ombre. Non vuole rischiare, sente le ombre, a cui è abiutato, come più rassicuranti. Per diventare uomini occorre però uscire dalla caverna intraprendendo un percorso di ascesa (anabasi) che costa fatica (gli occhi fanno fatica a vedere distintamente le cose reali) e impegno. Infatti l’uomo non esce dalla caverna sua sponte ma viene faticosamente trascinato nell’ascesa, simbolo della forza dell’educazione (dal latino ex-ducere, condurre fuori). Una volta fuori dalla caverna l’uomo pian piano si accorge della grandezza del mondo terreno e dei cieli e, quindi, della sua piccolezza. Questo significa che la conoscenza della verità comporta una svalutazione del proprio ego e la consapevolezza che sapere equivale a superare l’individualità per riconoscersi in una realtà più grande. Il ritorno nella caverna (catabasi) rappresenta il sentimento di pietà e di unità con gli altri, il tentativo di superare la separazione tra gli uomini. L'individuo non può raggiungere la perfezione etica da solo, ha bisogno del sostegno e della condivisione della comunità. 

Le moderne caverne sono ovviamente la tv e tutti gli altri mezzi di trasmissione di massa che offrono una rappresentazione capziosa e fuorviante della realtà. Solo la conoscenza del vero produce la consapevolezza delle falsificazioni.

lunedì 3 gennaio 2022

La Fenomenologia dello spirito di Hegel

La Fenomenologia dello spirito è un'opera pubblicata dal filosofo F. W. Hegel nel 1807. Il termine "fenomenologia" indica la descrizione o la "scienza" di ciò che appare. Poiché nel sistema hegeliano l'intera realtà è spirito, la fenomenologia consisterà nell'apparire dello spirito a sé stesso, cioè nel pervenire dello spirito alla consapevolezza di essere tutta la realtà, cioè l'"Assoluto" quale identità di finito e infinito, reale e razionale. In sostanza la filosofia di Hegel è l'ultimo grandioso tentativo di divinizzare il mondo compiuto da un filosofo.

Nella prefazione Hegel critica sia Fichte che Schelling. Fichte ha il merito di aver superato la prospettiva di rinuncia alla conoscenza dell'infinito del kantismo, ma Hegel lo accusa di aver individuato una “cattiva infinità”. L’infinito di Fichte è come un orizzonte che non si può mai raggiunfe. La storia umana avanza verso l’assoluto, verso l’Io puro, ma non li raggiunge mai. 

 Anche Schelling, pur avendo compiuto rispetto a Fichte un passo in avanti verso il coglimento dell'infinito, poichè aveva sostenuto la compresenza di io e non-io all’interno dell’assoluto, viene accusato di aver concepito l'assoluto come «una notte in cui tutte le vacche sono nere». In altre parole l’infinito schellinghiano, essendo unità indifferenziata di io e non-io, di finito e infinito, non permette di spiegare il sorgere delle cose finite e molteplici del mondo. Quella di  Schelling è una concezione statica dell'assoluto.

Hegel invece afferma nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito, che l’assoluto non è sostanza, ma soggetto. L’assoluto è dunque dinamico, in movimento come un soggetto, e non statico come una sostanza inerte.  Mentre per Fichte e per Schelling, l’assoluto è un punto di partenza, per Hegel  è il risultato di un lungo percorso di mediazioni, dei grandi eventi della storia dell'umanità (il vero è l'intero). Le parti finite della storia umana devono essere considerate nell'insieme. Se le consideriamo singolarmente, come hanno fatto le filosofie precedenti, abbiamo una visione falsata della realtà. Il vero è dunque il risultato di un divenire che si dipana in maniera ordinata attraverso un meccaniscmo logico dialettico che viene illustrato, appunto, nella fenomenologia

Il principio della risoluzione del finito nell'infinito, o dell'identità di reale e razionale, viene illustrato da Hegel in due modi diversi, corrispondenti a due differenti prospettive:

  • Da un lato egli si sofferma ad analizzare la lunga vicenda storica che, dall'alba della civiltà greca fino alla modernità, la coscienza ha compiuto per arrivare alla consapevolezza di essere l'assoluto. Tale prospettiva diacronica o fenomenologica, è seguita, appunto, nella Fenomenologia dello spirito;

  • dall'altro lato Hegel esamina il principio in questione quale appare in atto in tutte le determinazioni fondamentali della realtà: è la prospettiva sincronica, seguita nell'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio.

Hegel narra dunque nella Fenomenologia la storia dell'esperienza umana e degli errori che necessariamente occorre compiere per giungere al sapere assoluto. Egli analizza tutta l'esperienza umana, quella artistica, quella religiosa, quella filosofica; esamina il diritto, la società e lo stato come momenti fondamentali dell’esperienza umana.

 La fenomenologia è quindi la storia romanzata della coscienza, la quale, attraverso infelicità e dolore, esce dalla sua individualità, raggiunge l'universalità e si riconosce come ragione che è realtà e realtà che è ragione. L'intero ciclo della fenomenologia si può vedere riassunto nella figura della "coscienza infelice". La coscienza infelice è quella che non sa di essere tutta la realtà, perciò si ritrova scissa in opposizioni dalle quali è dilaniata e dalle quali esce solo arrivando alla coscienza di essere tutto.
 La fenomenologia ha pertanto uno scopo introduttivo e pedagogico (è una bildung=formazione). Il singolo non può elevarsi alla filosofia come scienza se non ripercorrendo la tortuosa via che la coscienza umana ha compiuto per giungere alla vetta della coscienza. La fenomenologia prepara e introduce il singolo alla filosofia: cioè tende a far sì che egli si riconosca e si risolva nello spirito universale. Hegel non parla, come Kant, del metodo o del modo con cui si deve conoscere, poichè la conoscenza è come il nuoto. Non si può imparare a nuotare senza tuffarsi in acqua.


La Fenomenologia si divide in due parti. La prima parte, che tratta di esperienze individuali, comprende i tre momenti della coscienza (tesi), dell'autocoscienza (antitesi) e della ragione (sintesi). La seconda parte comprende le tre sezioni dello spirito, della religione e del sapere assoluto, e tratta di esperienze e produzioni umani sovra-individuali.

 

Coscienza

La prima tappa della Fenomenologia dello spirito è chiamata "coscienza" e si sviluppa in un contesto puramente conoscitivo (gnoseologico). La coscienza è la consapevolezza di sè e per iniziare necessita dell'incontro con un oggetto. In questa sezione Hegel mostra come la coscienza di un oggetto esterno conduca necessariamente a una forma di autocoscienza. La coscienza si articola a sua volta in:
 1) certezza sensibile;
 2) percezione;
 3) intelletto.

                La certezza sensibile appare a prima vista come la forma di conoscenza più ricca e più sicura; in realtà è la più povera, perché non rende certi che di una mutevole e generica cosa singola. La sensibilità di per sè non è una vera conoscenza. Non mi permette di "percepire" questo albero o questa casa" presenti qui e ora davanti a me. Le sensazioni scivolano via continuamente e per poterle pensare occorre un concetto (albero, casa), con cui inquadrare le sensazioni. Per poter "pensare" il contenuto di una sensazione occorrono dunque le parole. Supponiamo di avere un mal di denti o un prurito: se provassimo a comunicarlo agli altri a parole ci renderemmo conto che le parole possono esprimere solo l’universale, il generale, non il privato. Non esiste un linguaggio per esprimere un’esperienza privata. La certezza sensibile si limita a sentire l'oggetto nella sua unicità e immediatezza. Deve dunque trapassare in altro, poichè proprio nella sua immediatezza si profila la mediazione tra ciò che è in sé e ciò che è per la coscienza: il "questo" non dipende dalla cosa, ma dall'io che la considera.

                Il passaggio dal sapere immediato al sapere mediato si realizza con la "percezione", la quale rende esplicita la distinzione tra il soggetto che percepisce e l'oggetto percepito, implicitamente presente nella certezza sensibile. Nella percezione ci si rende consapevoli che l'unità dell'oggetto, che dal punto di vista sensibile è più cose (una mela è rossa, bianca nell'interno, profumata, pesante, ecc.) è "qualcosa" grazie all'unificazione delle sue diverse qualità operata dalla mente che percepisce grazie all'uso dei concetti (mal di denti, mela). L’intelletto, come aveva insegnato Kant, dà forma, unifica, opera distinzioni, applica proprie forme trascendentali agli oggetti.

                L'intelletto è un ulteriore movimento dialettico che si ha quando si passa dal concetto generale al cogliere le forze interne che tengono unite le cose e alla comprensione dei concatenamenti che reggono il mondo. Si tratta di cogliere gli oggetti non come tali, ovvero non in base alle qualità sensibili che sembrano costituirli, ma come "fenomeni". Hegel ritiene che l'essenza vera dell'oggetto, che è ultrasensibile, non si può cogliere mediante l'intelletto. Pertanto, poiché l'oggetto esiste soltanto nella coscienza, allora esso non è "altro", ma è la coscienza stessa.  Quando l’intelletto si rende conto di unificare gli oggetti, si rende conto anche di se stesso. La coscienza che osserva il fenomeno osserva se stessa e diventa così autocoscienza.

 

Autocoscienza

Con l'autocoscienza, l'attenzione si sposta dall'oggetto al soggetto, cioè all'attività concreta dell'io, considerato nei suoi rapporti con gli altri. La prima figura fondamentale è quella di servo e signore. Come abbiamo visto, gli uomini prendeno coscienza di se stessi ma continuano a percepire gli altri uomini alla stregua di oggetti. Si entra così in una situazione di conflittualità.   

L'uomo, secondo Hegel, è davvero autocoscienza solo se riesce a farsi riconoscere da un'altra autocoscienza: per questo non può limitarsi a cercare negli oggetti sensibili l'appagamento dei propri desideri e dei propri appetiti, ma ha bisogno di farsi riconoscere da altri uomini. Per Hegel "il reciproco riconoscersi delle autocoscienze" non avviene tramite l'amore (che è il miracolo per cui ciò che è due diviene uno). ma passa attraverso un momento di lotta e di sfida, cioè attraverso il conflitto tra le autocoscienze. Tale conflitto, nel quale ogni autocoscienza, pur di affermare la propria indipendenza, deve essere pronta a tutto, anche a rischiare la vita, non si conclude con la morte delle autocoscienze contendenti, ma con il subordinarsi dell'una all'altra nel rapporto servo-signore. Il signore è colui che, pur di affermare la propria indipendenza, ha messo valorosamente a repentaglio la propria vita, fino alla vittoria, mentre il servo è colui che, a un certo punto, ha preferito la perdita della propria indipendenza pur di avere salva la vita. Si capisce che nella storia occidentale questo evento è il centro dell'età greco-romana.
 Tuttavia la dinamica del rapporto servo-signore è destinata a mettere capo a una paradossale inversione di ruoli, cioè ad una situazione in cui il signore diviene servo del servo e il servo signore del signore. Infatti il signore, che all'inizio appariva indipendente, nella misura in cui si limitava a godere passivamente del lavoro dei servi, finisce per dipendere da loro. Invece il servo, che era dipendente dal signore, nella misura in cui padroneggia e trasforma le cose da cui il signore riceve il proprio sostentamento, finisce per rendersi indipendente. Questo processo di progressiva acquisizione di indipendenza da parte del servo avviene tramite tre momenti:
 1) la paura della morte;
 2) il servizio;
 3) il lavoro.
 Lo schiavo è tale perché ha tremato dinnanzi alla possibilità della morte. Ma proprio in virtù di questa paura egli ha potuto sperimentare il proprio essere come qualcosa di distinto o di indipendente da quel mondo di realtà e di certezze naturali che prima gli apparivano come qualcosa di fisso e con le quali si identificava. 
Nell'essere "al servizio" la coscienza si autodisciplina e impara a vincere i propri impulsi naturali.
 Attraverso il lavoro il servo imprime alle cose una forma, dando luogo a un'opera che permane e che ha una sua autonomia. In questo senso, l'opera prodotta rappresenta il riflesso, nelle cose, della raggiunta indipendenza o autonomia del servo rispetto agli oggetti.

 

Stoicismo e scetticismo. Il raggiungimento dell'indipendenza dell'io nei confronti delle cose trova la sua manifestazione filosofica nello stoicismo, cioè in un tipo di visione del mondo che celebra l'autosufficienza e la libertà del saggio nei confronti di ciò che lo circonda. Lo stoico pretende di essere ugualmente libero sia sul trono che in catene, poiché è nel pensare che si è liberi. Ma nello stoicismo l'autocoscienza, che pretende di svincolarsi dai condizionamenti della realtà, raggiunge soltanto un'astratta libertà interiore, giacché quei condizionamenti permangono e la realtà esterna non è affatto annullata.

La pretesa di mettere completamente tra parentesi quel mondo esterno da cui lo stoico si sente indipendente appartiene invece allo scetticismo, ossia a una visione del mondo che sospende l'assenso su tutto ciò che è comunemente ritenuto vero e reale.

Hegel, però, usa contro lo scetticismo l'argomento tradizionale: quello secondo cui lo scettico si autocontraddice, poichè da un lato dichiara che tutto è vano e falso, mentre dall'altro pretende di dire qualcosa di reale e vero.

 

La coscienza infelice. Attraversata la contraddizione tra la negazione della verità e l'affermazione di una verità, la coscienza scettica trapassa nella figura della "coscienza infelice", in cui la suddetta contraddizione diviene esplicita e assume la forma di una separazione radicale tra l'uomo e Dio. L'opposizione tra uomo e Dio, tra finito e infinito, produce nella coscienza una lacerazione che genera infelicità. 
La separazione tra uomo e Dio si manifesta in un primo momento nell'ebraismo, nel quale Dio è un padrone assoluto della vita e della morte, ovvero un Signore inaccessibile di fronte a cui l'uomo si trova in uno stato di totale dipendenza. 
Il secondo momento è quello nel quale l'intrasmutabile (Dio) assume figura e corpo umani (Cristo), e in quest'esperienza vi è il primo tentativo di colmare l'abissale distanza tra i due estremi. Ma questo momento non risolve il problema (Cristo è un Dio, anche se ha forma umana, e d'altra parte sta su questa terra per un periodo troppo breve, ed è "dileguato nel tempo e nello spazio"). Più tardi si la nostalgia lascia il posto alla fallimentare ricerca e riconquista (con le Crociate) dei luoghi nei quali Cristo era vissuto e morto, che si conclude con la scoperta di un sepolcro vuoto. 
Il terzo e lungo momento successivo è quello rappresentato dall'affermarsi della coscienza religiosa cristiano-medievale, in cui la coscienza continua ad essere infelice. Manifestazioni di questa infelicità sono le sotto-figure della devozione, del fare e della mortificazione di sè, con cui si cerca di colmare la distanza rispetto al Dio che se n’è andato da questa terra promettendo di ritornare. Con la via dell'ascesi, il singolo fedele si annulla e si riduce a una specie di "cosa", nel tentativo di liberarsi dalla sua infelicità. Una liberazione che si completa in una sorta di risveglio nel quale non c'è più né Dio né l'intermediario né la coscienza infelice, ma appare la nuova figura che Hegel chiama "Ragione". Questo passaggio non avviene nel Medioevo ma nel Rinascimento e nell'età moderna. Nel suo sforzo di unificarsi con Dio il singolo si rende conto di essere lui stesso Dio, ovvero l'Universale.

 

La Ragione

Riconciliandosi con la realtà, la coscienza diventa ragione, ovvero consapevolezza della razionalità del reale. Questo processo si compie nel corso dell'età moderna, quando la coscienza, abbandonando l'inutile sforzo di identificarsi con Dio, si rende conto di essere lei stessa Dio, ovvero il soggetto assoluto, l'intera realtà, perché solo tramite la coscienza la realtà diventa visibile. Allora la ragione non è altro che la coscienza stessa diventata consapevole di essere l'intera realtà; in questa consapevolezza consiste l'idealismo, cioè l'affermazione che l'intera realtà è l'idea, il pensiero.

Il percorso attraverso cui la coscienza, riannodando il rapporto con il mondo, si fa ragione - il che equivale a dire che ricerca la razionalità della realtà - a sua volta si articola in fasi, la prima delle quali è quella della ragione osservativa, cioè la ragione tipica dell'età rinascimentale, in cui la natura è conosciuta mediante l'osservazione diretta. Questa fase passa dalla semplice osservazione alla formulazione delle leggi mediante l'esperimento, dal mondo inorganico a quello organico e, infine, alla psicologia. Con le pseudo-scienze della frenologia e della fisiognomica (la pretesa di capire il carattere dalla forma del cranio o del viso) la ragione osservativa conclude il suo ciclo, rendendosi conto che lo spirito non può coincidere con la forma di un osso.

Ma la coscienza non si ritrova nella natura semplicemente osservando la natura stessa, e la ragione non si attua come pura ragione contemplativa, bensì come attività pratica (ragione attiva), la quale cerca di realizzarsi attraverso lo sviluppo di tre figure. La prima è quella del faustismo (figura: il piacere e la necessità), in cui l'individuo, deluso dai risultati della scienza naturale, si lancia alla ricerca della vita, del suo significato più forte e del godimento della vita stessa. Ma nella ricerca del piacere l’autocoscienza si scontra con l’ineluttabilità del destino (Faust seduce Margherita ma deve subire la vendetta dei familiari, mentre Margherita è punita dalla legge per l’infanticidio), che contrasta il suo desiderio di felicità, mettendo in luce i limiti e la finitezza dell'individuo.

Il secondo tentativo è rappresentato da Hegel come l’esperienza tipica di un giovane che si contrappone alla società e alle sue leggi con motivazioni altamente morali (figura: la legge del cuore e il delirio della presunzione). Egli alle difficoltà e ai mali del mondo (il fanatismo, l'ottusità, la corruzione) contrappone la legge del cuore (allusione alle filosofie che nel corso del Settecento hanno sviluppato il tema del sentimento, e a Karl Moor, protagonista del dramma di Schiller “I Masnadieri”). Ma, dopo il fallimento del faustismo, neanche il sentimento riesce a eliminare tutti i conflitti, la legge del cuore, entra in contraddizione con altre "leggi del cuore", e si rivela anch’essa ingiusta e oppressiva.

Il terzo tentativo è quello rappresentato dal cavaliere della virtù (figura: la virtù e il corso del mondo) - attraverso cui egli denuncia l'ingenuità di chi crede di poter eliminare definitivamente il male dal mondo (esempio: Don Chisciotte, Robespierre) e l'illusione di chi, vestendo i panni del cavaliere della virtù, crede di poter moralizzare il mondo base alle proprie idee astratte.

Lo sforzo individuale della singola coscienza è dunque destinato a fallire, in quanto non in grado di raggiungere l'universalità. Di qui il passaggio a una nuova fase della coscienza denominata dell'individualità (figure: regno animale dello spirito, ragione legislatrice e ragione esaminatrice delle leggi) che tuttavia non può realizzarsi pienamente come tale, poiché l'individuo è sempre l'espressione dei rapporti socio-culturali in cui vive. In altre parole: se si rimane fermi al punto di vista dell'individuo si rimane intrappolati in una visione astratta e non è possibile raggiungere l'universalità. È allora necessario il passaggio all'attività pratica universale, cioè a quella dimensione che Hegel chiama "eticità" e che consiste nelle consuetudini, nelle istituzioni dei popoli, nelle forme dello Stato, che viene trattata nelle sezioni seguenti (spirito, religione, sapere assoluto). Con ciò Hegel intende dire che la ragione vera e reale non è quella dell'individuo, ma quella dello Stato che sta alla base di ogni atto della vita individuale. L'individuo si fonda sulla realtà storico-sociale e non viceversa. A questo punto la ragione diventa spirito, unità di soggetto e oggetto, e il suo sviluppo non riguarda più la coscienza individuale, bensì la storia dell’umanità.