Jean Dumont, I falsi miti della Rivoluzione francese

 1. PERCHÉ RIFIUTIAMO DI CELEBRARE LE MENZOGNE RIVOLUZIONARIE

 

Presa della Bastiglia da parte del popolo

Si è trattato in realtà di sparuti gruppi di vagabondi e di disertori, che cercavano munizioni (armi), il popolo francese si è tenuto alla larga.

I capi rivoluzionari fanno solo dopo la loro comparsa, quando comincia lo sfruttamento politico. Non si è trattato di nessuna presa, ma di un ingresso dalla porta ordinato dal governatore. Infine, questo ingresso non ha avuto alcun significato nella storia della libertà, in quanto nella Bastiglia non veniva custodito nessun prigioniero politico e quindi la sua “presa” non ha liberato nessuno.

 

Epopea dei volontari dell'Anno II

Di questa “epopea” non smettono di riempirsi la bocca gli oratori politici, anche quelli che parlano per la destra, come Andrè Malraux quando ha celebrato la nascita della Quinta Repubblica nel 1958, a Place de la République a Parigi. (….)

I volontari furono «volontari obbligati» che scelsero in maggioranza sia la ribellione che la diserzione: vi sono stati 800.000 disertori su 1.200.000 chiamati alle armi nel 1794[1]. Inoltre questi pretesi volontari furono anche volontari comprati dall'autorità a prezzo molto elevato, scelti fra i vagabondi, da cui il soprannome di «eroi da 500 lire» (…) che venne dato loro dai vandeani, anch’essi «volontari obbligati» ribelli.

La pessima qualità di queste truppe ha prodotto una delle più spaventose carneficine della storia militare francese: nei primi mesi «200.000 vite umane sprecate», nota Pierre Chaunu[2].

 

Pretesa di «modernizzazione decisiva» portata dalla Rivoluzione

«Infatti (…) il decennio 1789-1799 rappresenta una catastrofe nazionale per la nostra economia d’avanguardia»[3].

Quest’ultima – favorita nel 1786 dal progetto del Mercato Comune iniziato sotto la monarchia con il trattato di libero scambio con l’Inghilterra – frana sotto la Rivoluzione. Bisognerà attendere i tempi “riparatori” della monarchia restaurataperchè i nostri scambi con l’estero, in un secolo XIX ampiamente cominciato, ritornino all’alto livello prerivoluzionario del 1788»[4]. Per l’esattezza bisognerà attendere l’anno 1825, durante il regno di Carlo X. La Francia avrà così accumulato più di un terzo di secolo di ritardo nello sviluppo economico e nel commercio internazionale, un ritardo che non ha mai più recuperato.

Lo storico di Cambridge D. W. Brogan ha scritto che, molto probabilmente, se non vi fosse stata la rivoluzione la Francia sarebbe stata alla testa dell'espansione economica dalla fine del secolo XVIII, ruolo che ha lasciato all'Inghilterra. È quanto constata all’epoca proprio un testimone inglese, il deputato Edmund Burke, osservatore delle vicende economiche e politiche, che scrive: "I francesi si sono dimostrati i più abili artefici della rovina che mai siano esistiti al mondo.  Hanno interamente distrutto il loro commercio e le loro fabbriche. Hanno fatto i nosti interessi, a noi che siamo i loro rivali, meglio di quanto venti battaglie (…) non avrebbero mai potuto fare".

 

La menzogna di un popolo al potere

La Comune del 10 agosto 1792 è costituita da un’esigua minoranza di attivisti che distrugge la monarchia, instaura la Repubblica ed esercita la dittatura dell’Anno I. Ora (…) Braesch ha mostrato che, dei suoi 176 membri iniziali, soltanto  soltanto due sono operai. Tutti gli altri soo borghesi, artigiani e intellettuali, oltre a tre militari.

Fra i loro capi, nota Pierre Gaxotte, «il presidente Hueguenin è un concussionario, Rossignol un assassino, Manuel ha rubato, falsificato e venduto la corrispondenza di Mirabeau: Hebert, controllore a teatro, è stato licenziato dai variétés per borseggio, Panis è stato cacciato dal Tesoro reale per appropriazione indebita».

A quel tempo esistevano i campagnonnages, organismi che raggruppavano l'élite operaia. Dopo che la rivoluzione sopprime tutte le associazioni operaie con la legge Le Chapelier, i Pierre Compagnonnages, «caduti in sospetto, (…) si rifugiavano una volta di più nella clandestinità» (…). Essi potranno rifiorire, come del resto l’economia, con il ritorno della monarchia nel 1815.

 

La menzogna della pretesa «felicità del popolo» sotto la Rivoluzione

Di fatto, la Rivoluzione è un martirologio operaio, come hanno abbondantemente mostrato gli storici di estrema sinistra. «Dal punto di vista sociale, le conseguenze dell’assegnato furono molteplici scrive lo storico comunista Albert Soboul, professore alla Sorbona —. Le classi popolari, vittime abituali dell’inflazione, subirono un aggravamento della loro condizioni di vita; compagnons e operai pagati in cartamoneta, videro abbassato il loro potere d’acquisto. La vita rincarava, l’aumento dei prezzi dei viveri produsse le stesse conseguenze della carestia»[5].

Del resto, il potere rivoluzionario — un potere borghese, come si è visto — conduce una politica sistematicamente antipopolare. Durante il famoso Anno II, «Saint-Just fa arrestare come sospetti alcuni operai in sciopero»[6] e la Comune di Parigi impone un tetto massimo salariale[7], che si traduce in una riduzione dei salari di circa un terzo. In questa situazione «le classi popolari sprofondano nella disperazione»[8]. «Uomini e donne cadono nelle strade per inedia, la mortalità aumenta, i suicidi si moltiplicano»[9]. Lo storico inglese Richard Cobb ha constatato che a Rouen, nei quartieri popolari, all’inizio dell’Anno IV, la mortalità raggiunse punte quattro volte superiori a quella normale: in questa città francese vi sono settecento morti in più al mese. Operai e operaie con i loro bambini vengono uccisi dalla fame e dal freddo[10]; a Parigi e nei dintorni, l’Anno IV si chiude con un’eccedenza di diecimila morti sulle nascite.

Il portavoce delle petizioni popolari, Jacques Roux, ha il coraggio di affermare che una simile situazione non sarebbe stata possibile sotto l’Ancien Régime (…).

Identica è la situazione per i contadini piccoli proprietari e per i braccianti. Come ha notato un altro storico comunista, Georges Lefebvre, predecessore di Albert Soboul alla Sorbona, la Rivoluzione «è costata molto cara»[11] ai contadini poveri. La soppressione dell’imposta ecclesiastica, della decima — fino ad allora a carico dei proprietari e l’espropriazione dei beni della Chiesa vanificano i considerevoli aiuti sociali che queste tasse e questi beni garantivano ai poveri in caso di maltempo, di carestia oppure per l’acquisto di sementi, e così via. La soppressione del regime signorile e della comunità rurale, la nascita della libertà di coltura e del diritto di recintare le terre, sopprimono di fatto la «comproprietà» — secondo la formula utilizzata da Albert Soboul — delle terre dei signori e dei contadini ricchi, che garantiva ai poveri i vecchi diritti comunitari, diritti di pascolo, di passaggio, di spigolatura, di raccolta delle ghiande e della legna, e così via, che permettevano ai poveri di sfruttare in seconda battuta i terreni, i prati e i boschi dei signori e dei ricchi, e così di nutrirsi, di avere un po’ di bestiame, di scaldarsi, di costruire.

 

La menzogna della pretesa di antiaristocratismo

Nel gergo rivoluzionario il termine "aristocratico" non designa un membro della nobiltà, ma un nemico della Rivoluzione. Così si considera aristocratico un operaio cattolico dell’Anjou o un contadino ribelle del Lozere.

Lo storico americano Donald Greer ha mostrato che, tra le vittime assassinate sotto il Terrore, soltanto l'8,5% appartiene alla nobiltà e dunque, il 91,5% di «aristocratici» appartiene al popolo[12].

 

La menzogna – o i limiti – del preteso «antimonarchismo» rivoluzionario

È certamente evidente che la rivoluzione ha distrutto la monarchia e ghigliottinato Luigi XVI. Ma è sicuramente falso che questo «antimonarchismo» sia stato più di un atteggiamento di circostanza della Rivoluzione, sia stato il suo vero progetto. Anzitutto nel 1789 non vi sono in Francia antimonarchici. «Nessuno, anche senza confessarlo, è repubblicano, constata Daniel Momet[13]. Non ve ne sono stati e non se ne trovano anche fra tutti i capofila degli intellettuali di allora, da François-Marie Arouet, detto Voltaire, a Guillaume-Thomas Raynal, da Denis Diderot a Jean-Frangois Marmontel, da Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert a Jean-Jacques Rousseau. Quest’ultimo parla anche dell’«insopportabile e odioso giogo degli uguali», unendosi a Voltaire che amava affermare: «Val meglio servire sotto un leone di buona razza che sotto duecento topi della mia specie».

 

La menzogna maggiore: la dissimulazione del vero progetto, cioè l’anticristianesimo

Ma, si dirà, se la Rivoluzione non è antiaristocratica nè antimonarchica, che cos’è? Essa è ciò che i suoi amici democratico-cristiani d’assalto si sono ingegnati a dissimulare fino ad oggi. Essa si spiega attraverso un mese chiave (…). Questo mese, che che va dal 7 luglio 1792 (monarchico) al 10 agosto successivo (quando viene distrutta la monarchia) rivela una specificità della rivoluzione più significativa di ogni altra, perché ribalta tutto.

 Questa specificità è l’anticristianesimo totalitario, la sola vera essenza della Rivoluzione francese e il suo unico vero progetto, iniziale e finale.

Il 14 luglio 1792 e nei giorni successivi, questo anticristianesimo totalitario, questa fede nei prodigi del sacrilegio fanno osare i gesti sistematici che abbiamo lasciato intravedere: massacri di sacerdoti che avvengono un po' dappertutto in Francia e per la prima volta nella storia della Rivoluzione. La distruzione della monarchia sarà il mezzo per garantire la generalizzazione di questi massacri di sacerdoti e l'annientamento della religione.

 

 3. PERCHÉ RIFIUTIAMO DI CELEBRARE LE IGNOMINIE RIVOLUZIONARIE

Queste ignominie rivoluzionarie, numerose e multiformi, sono l’origine specifica dei crimini totalitari moderni, il modello ben attrezzato e adattabile a cui seguiranno il Gulag sovietico e i Lager nazionalsocialisti.

• L’ignominia del Terrore poliziesco, modello della Gestapo e del KGB, e anche dei terrori folli e maniacali tipo Khmer rossi di Pol Pot. Infatti, il controllo poliziesco e la repressione sono dappertutto e in ogni istante nella vita rivoluzionaria. Il terrore poliziesco è tanto meticoloso quanto universale: «Da quando siamo liberi non possiamo più uscire dalla città senza un passaporto», viene gridato in una commedia teatrale durante la breve tregua termidoriana. Un passaporto interno? Sì, proprio come nell’Unione Sovietica staliniana. Ma questo passaporto interno evidentemente non è sufficiente. Nel comune di residenza bisogna anche poter esibire il certificato di civismo, rilasciato dal comitato rivoluzionario di quartiere, in cui risiede la feccia della società, come si è potuto osservare. Senza certificato di civismo non vi è possibilità di nutrirsi: viene richiesto dai panettieri per comprare il pane e dagli altri commercianti per acquistare gli altri alimenti. Inoltre, lungo la strada viene richiesto un passaporto sull’abbigliamento, dapprima solo per gli uomini, poi anche per le donne. Questo passaporto sull’abbigliamento deve manifestare l’entusiasmo, un entusiasmo obbligatorio perché, sotto la Rivoluzione, si è sempre «volontari obbligati». Si tratta della coccarda tricolore, resa obbligatoria per tutti i francesi e le francesi con un decreto della Convenzione del 3 aprile 1793, e con nessuna possibilità di rifiutare il simbolo, o di trovarlo poco adatto, o di desiderare ornamenti più personali. Per questa ragione molte donne la rifiutano e la Convenzione interviene di nuovo il 21 settembre 1793.

 

Passi tratti da: Jean Dumont, I falsi miti della Rivoluzione francese, Effedieffe, 1990.

 



[1] Pierre Gaxotte, La Rivoluzione francese, Mondadori, p. 418.

[2] Pierre Chaunu, La France, Parigi, 1982, p. 365.

[3] E. La Roy Ladurie, Prèface a Alfred Coban, Le sens de la Rèvolution Francès, Parigi, 1984, p. 12.

[4] D. W. Brogan, Le prix de la Rèvolution, Parigi 1953, p. 32 e pp. 38-39.

[5] Albert Soboul, Storia della Rivoluzione francese, Rizzoli, Milano, 1988, t. II p. 156.

[6] François Furet - Denis Richet, La Rivoluzione francese, Laterza, 1980, vol I, p. 302.

[7] Ibidem.

[8] Albert Soboul, Histoire de la Révolution française, Parigi, 1979, p. 156.

[9] Ibidem.

[10] Cfr. François Furet - Denis Richet, op. cit., vol. I, p. 423.

[11] Georges Lefebvre, Etudes sur la révolution française, 1963, pp. 246-268.

[12] Donald Greer, Incidence of the Terror during the French Revolution, Cambridge, 1951.

[13] Daniel Momet, Dictionnaire des lettres françaises, XVIIIe siècle, Parigi 1960.

 

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