Dal criticismo all'idealismo: Fichte, Schelling ed Hegel

 È nel decennio che ha inizio col 1790, quando Kant ha pubblicato le sue tre Critiche e ha definito con grande efficacia le due sfere degli interessi e dei «poteri» umani (della conoscenza, della natura e della necessità da una parte; del sentimento, della volontà e della libertà dall'altra), che si formano e cominciano ad affermarsi i tre importanti pensatori che in area tedesca proseguono originalmente il cammino da Kant iniziato: Fichte, Schelling, Hegel. 

Questi tre autori percorrono una strada teorica che li porterà a prendere le distanze dal loro grande maestro ideale, pur muovendo dalle conclusioni cui questi era pervenuto, e ad effettuare il passaggio dal criticismo (la filosofia di Kant per l'appunto) all'idealismo, termine che designa le posizioni, molto diversificate come vedremo, di Fichte, Schelling, Hegel.

Kant aveva chiamato criticismo la sua filosofia per distinguerla non solo dal dogmatismo della metafisica tradizionale e dell'empirismo radicale ma anche dallo scetticismo (le posizioni di Hume, che Kant dagli anni sessanta tiene presenti come legittime ma non conclusive reazioni al dogmatismo): criticismo voleva significare indagine preliminare sui poteri e i limiti delle facoltà razionali umane (conoscitive e non conoscitive) considerate «a priori», prima cioè del loro uso effettivo. Il risultato di tali indagini lo abbiamo visto: le facoltà conoscitive possono conoscere la natura, intesa però come insieme di fenomeni concatenati oltre i quali non si può andare (le cose in sé, o noumeni, possiamo pensarle ma non conoscerle), ma non possono conoscere gli «oggetti» della metafisica tradizionale (l'anima, il mondo nella sua essenza, Dio). Le facoltà non conoscitive, da parte loro, possono farci «sentire» interiormente (coscienza, speranza, fede) che c'è un io con un'anima immortale, che c'è un mondo oltre i fenomeni, che c'è un Dio oltre l'anima e il mondo, ma ci dicono pure che di tutto questo non possiamo avere conoscenza. Kant concludeva il suo pensiero, quindi, con un dualismo radicale sia nel«soggetto» (facoltà conoscitive della ragion pura e facoltà non conoscitive della ragion pratica) sia nell' «oggetto» (fenomeni conoscibili e noumeni o cose in sé non conoscibili).

 

Dalle critiche alla cosa in sé all’idealismo

Alcuni “critici immediati” del kantismo (Jacobi, Schulze, Maimon e Beck) ritennero contraddittorio il concetto di cosa in sé. Essi non accettavano l'idea di una realtà esterna al soggetto che non possiamo conoscere. Come può esistere una realtà di cui l'io è il legislatore ma non la può conoscere? Se l’oggetto risulta concepibile solo in relazione a un soggetto che lo rappresenta, come può venir ammessa l’esistenza di una cosa in sé, ossia di una realtà non pensata e non pensabile, non rappresentata e non rappresentabile? Evidentemente la cosa in sé, da tale punto di vista, non può configurarsi che come un concetto impossibile, simile, come disse Maimon, a una grandezza matematica come radice di –a.

Fichte, Schelling ed Hegel, tentano in maniere diverse di «superare» il dualismo radicale nel quale era sfociato il criticismo kantiano. Il superamento di tale dualismo viene definito, in parte da loro stessi e soprattutto nella tradizione filosofica successiva, come idealismo. Nel linguaggio comune il termine “idealista” indica chi segue determinati valori “ideali”. Nel linguaggio filosofico distinguiamo l’idealismo gnoseologico, cioè quelle posizioni di pensiero che riducono l’oggetto della conoscenza a idea o rappresentazione (Cartesio, Berkeley, Kant, Schopenhauer) e l’idealismo romantico. Quest’ultimo, nel suo significato «tecnico» quale viene inteso da Fichte, Schelling ed Hegel, significa nella sua accezione più generale che c'è un'unica realtà assoluta di tipo «ideale» cioè «spirituale» all'interno della quale si pongono le distinzioni relative di soggetto-oggetto, libertà-necessità, individuo-mondo, io-Dio (F. Restaino, p. 197). Tutti i dualismi che abbiamo trovato nel pensiero kantiano vengono considerati, in maniera molto diversa come vedremo subito, quali distinzioni interne, relative, nell'ambito di una realtà unica e assoluta la cui «natura» è essenzialmente spirituale o ideale.

 

L’idealismo etico di Fichte

I riferimenti ideali del filosofo Johan Fichte sono la Rivoluzione francese e la filosofia morale di Kant. Secondo Kant l'io penso non crea le cose, ma si limita a ordinare i dati dell'esperienza sensibile, senza poterla conoscere come realtà in sè. Fichte, però, obietta che i dati dell'esperienza dovrebbero provenire dagli oggetti esterni e quindi, in ultima analisi dal noumeno, cioè da qualcosa di inconoscibile. Ma come può essere inconoscibile qualcosa che è fonte della nostra esperienza? A Fichte sembra chiaro che tutto questo discorso è contraddittorio. Un noumeno, inteso come qualcosa di inconoscibile, esterno a noi e fonte delle nostre rappresentazioni non può esistere. Egli si rifiuta quindi di ammettere realtà che non siano quella del soggetto stesso. Il soggetto per lui non può essere limitato da una presunta realtà noumenica, ed è quindi assoluto e infinito. Tutta la realtà è creata dunque da un "Io puro", una specie di "Grande Io", che rappresenta l'intera umanità che, nella visione fichtiana, è l'autentica divinità . Il "Grande Io" è l'essenza divina dell'umanità che ovviamente non coincide coi singoli "io".

Fichte, in una formula spesso citata e apparentemente simile a un gioco di parole, riassume il suo idealismo nella frase «l'Io pone il Non-Io nell'Io per essere Io», e vuol dire una cosa molto semplice e anche molto kantiana nell'ispirazione, come vedremo subito: l'essere umano (l'lo) essendo di natura essenzialmente morale, sente il «dovere» di realizzare questa sua natura (di essere cioè compiutamente Io); il che può fare soltanto lottando (nell'Io, cioè in sè stesso) contro le «tentazioni» degli impulsi (non-io) provenienti dalla propria sfera animale e naturale. L'essere umano, quindi, nella sua natura essenzialmente spirituale, «assorbe» in qualche modo il resto della realtà lottando per realizzare sè stesso; e l'umanità, come insieme di esseri umani in lotta per realizzare sè stessi, punta a mettere in atto un «ordine morale» che appare simile, nell'ultimo Fichte, al mondo delle anime di ascendenza platonica o neoplatonica (F. Restaino, pp.197-198). Il mondo esiste come teatro dell'azione morale, per permettere a ciascuno di noi e all'intera umanità di diventare moralmente migliore. Quando Fichte afferma che «L'Io oppone, nell'Io, all'io divisibile un non-io divisibile» vuol dire che ogni individuo (io divisibile) e la sua singola esperienza (non-io divisibile) sono aspetti di ogni esperienza concreta, divisi ma inseparabili. La realtà è sempre rappresentazione che necessita di un io e di un non-io.

In altre parole «prima di Fichte l'agire era sempre considerato conseguenza dell'essere (operari sequitur esse),  l'essere era condizione dell'agire; l'idealismo fichtiano rovescia l'antico assioma e afferma che esse sequitur operari: l'azione precede l'essere, l'essere è il prodotto dell'agire»  (G. Reale). Noi siamo la conseguenza delle nostre azioni.  Attraverso uno sforzo (streben) infinito, l'umanità procede verso un infinito progresso morale, proprio come aveva sostenuto Kant. Ogni ostacolo rappresenta un'occasione di progresso in un percorso virtualmente infinito, perchè se terminasse, l'uomo, divenuto statico, cesserebbe di esistere. L'Io è dunque, al tempo stesso, attività agente e prodotto di questa attività (Tathandlung).


Riassumendo:

  • lo Spirito (Grande Io) crea la realtà, nel senso che l’uomo rappresenta la ragion d’essere dell’universo che in esso trova il suo scopo;
  • la natura esiste non come realtà a sé stante, ma come momento dialettico necessario alla vita dello Spirito.

Per Fichte la figura classica di un Dio trascendente è solo una chimera. L’unico Dio possibile è lo Spirito dialetticamente inteso, ovvero il soggetto che si costituisce tramite l’oggetto (non io) la cui libertà che opera attraverso l’ostacolo (l'impulso egoistico). Dalla libera attività dell'io si deve non solo la forma della realtà (come in Kant) ma la realtà stessa.

L'invasione napoleonica della Francia a Fichte apparve un tradimento degli ideali rivoluzionari e lo spinse a pubblicare il libro Discorsi alla nazione tedesca. In esso egli auspica un'Europa fraterna e solidale aperta al contributo originale dei popoli, in particolare quelli germanici favoriti dal fatto che il tedesco è l'unica lingua parlata sia dagli intellettuali, sia dal popolo.

 

L’idealismo di Schelling (soggettivo)

Schelling che inizialmente, fino al 1800, si dichiara seguace del pensiero di Fichte, se ne differenzia poi nel «superamento» del dualismo kantiano fra natura-necessità e individuo-libertà. Per Fichte la natura è soltanto "ostacolo", limite che deve essere superato. Schelling invece sostiene che  «la natura è lo spirito addormentato, lo spirito è la natura risvegliatasi». Formula che, come vedremo più avanti, sta a significare che natura e spirito sono aspetti diversi ma «interni» di un'unica realtà spirituale, che a volte dorme (natura) e a volte sta sveglia (spirito). Lo star svegli, per Schelling, cioè il «rendersi conto» dell'unicità della natura spirituale di tutto quanto esiste, è cosa che riguarda non la conoscenza scientifica o filosofica ma una forma «diversa» e «superiore» di conoscenza, cioè l'«intuizione estetica». Secondo Schelling 

«la natura è come un opera d'arte quale Kant nella Critica del giudizio aveva descritto (...). Anche la conoscenza della natura, pertanto, deve essere il frutto di una intuizione estetica e non di una conoscenza teoretica o scientifica». (F. Restaino, p. 224) Solo l'artista può veramente cogliere l'essenza della natura, cioè l'essenza dell'assoluto.

La ricerca filosofica di Schelling assume pertanto due direzioni: la filosofia della natura, che mostra come la natura sia spirito visibile, e la filosofia dello spirito, che mostra come lo spirito sia natura invisibile. Anche il mondo della natura mostra, a ben guardare, la presenza dello spirito. Nel mondo inorganico esso si manifesta attraverso il magnetismo, l'elettricità e i fenomeni chimici. Nel mondo organico si rivela nella sensibilità, nell'irritabilità e nella riproduzione. La Natura, in ultima analisi, è finalizzata intrinsecamente a generare l'uomo, perchè solo nell'uomo lo spirito diventa consapevole.

Più avanti, dall'intuizione estetica Schelling passerà a un tipo di conoscenza che ha a che fare più con la religione che con la filosofia o l'estetica.

Schelling chiama il suo idealismo “soggettivo” per contrapporlo alla filosofia di Spinoza, che aveva sì ridotto la realtà a un principio unico, la Sostanza, ma aveva inteso la sostanza stessa in termini di natura, cioè di oggetto. La posizione di Schelling è, in ultima analisi, una sorta di sintesi tra la filosofia di Spinoza e quella di Fichte.

 

L’idealismo assoluto di Hegel

Hegel, il più importante dei tre, inizialmente vicino a Kant, a Fichte e a Schelling, se ne separa in maniera pubblica nell’opera del 1807 La Fenomenologia dello Spirito. Qui appare con forza nella riflessione filosofica, occupandone il centro, la storia umana, nei suoi aspetti individuali e collettivi. Hegel li descrive e analizza come una successione «necessaria» di «esperienze» dell'umanità nel suo cammino verso l'autocoscienza o libertà: nel suo progressivo rendersi conto, cioè, di essere nient'altro che un aspetto o momento, e quello più elevato e più maturo, del processo dialettico (vedremo più avanti il significato di tale concetto) e necessario della «storia» dello Spirito o Ragione o Idea (nomi con i quali Hegel indica anch'egli l'unica intera e totale Realtà di cui siamo parte).

L’idealismo di Hegel è detto “assoluto” perché sostiene che l’io o lo spirito sono l’essenza di tutte le cose, e che oltre i quali non esiste nulla.

 

Fonti: F. Restaino, “Storia della filosofia”, volume 3/2, ed. Utet; Abbagnano-Fornero, Con-filosofare

 

 

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