DONNE E GUERRA: UN RAPPORTO PROBLEMATICO


Esiste la convinzione, abbastanza diffusa ancora oggi, che le donne, in quanto portatrici di vita, siano naturalmente pacifiste. Secondo un’altra opinione, difesa anche da molte femministe, uomini e donne sarebbero perfettamente interscambiabili in qualsiasi attività.
Per i sostenitori di questa tesi le donne sarebbero quindi in grado di guerreggiare esattamente come gli uomini. Eppure, nella storia dell’umanità, l’attività del combattere, nella quasi totalità dei casi, è stata rigidamente riservata ai maschi. Hanno dunque ragione quelli che sostengono una naturale pacioseria femminile, e dunque un’innata bellicosità maschile? La risposta non è affatto semplice.
L’entusiasmo mostrato da moltissime donne allo scoppio della prima guerra mondiale non sembrerebbe confermare la prima tesi. Bisogna anche ricordare che, in quell’occasione, le associazioni femministe, nella stragrande maggioranza dei casi, si schierarono a favore dell’intervento. Nel 1935 furono centinaia di migliaia le donne italiane che donarono l’anello d’oro del matrimonio al regime fascista per agevolarne la vittoria nella guerra d’Etiopia. In tempi più recenti, nel 1991, la percentuale di donne statunitensi favorevoli all’intervento in Iraq era del 76%, una maggioranza piuttosto netta.[1] Si può anche osservare che quando le donne hanno regnato non sono sembrate più votate alla pace degli uomini; se ci riferiamo alla storia moderna possiamo ricordare gli esempi di Caterina dei Medici, di Maria Tudor (soprannominata la Sanguinaria), di Elisabetta d’Inghilterra, di Maria Teresa d’Austria o di Caterina di Russia. Anche le governanti del secolo scorso non si sono tirate indietro di fronte all’eventualità di una guerra. Pensiamo ad esempio a Indira Gandhi, a Golda Meir o a Margareth Thatcher.

Le donne hanno spesso collaborato coi militari durante le guerre. Almeno sino all’era napoleonica molte si univano agli eserciti per seguire i mariti, per prostituirsi o per svolgere funzioni ausiliarie come lavandaie, cuoche, raccoglitrici di legna, ecc. Nell’era contemporanea, però, i motivi che avevano prodotto questo fenomeno vennero meno. A tal proposito lo storico israeliano Van Creveld, esperto di questioni militari, ha scritto:



 All’inizio del XX secolo la figura tradizionale dell’ausiliaria era praticamente scomparsa. (…) La diffusione delle ferrovie e il fatto che i governi avessero iniziato a dare dei sussidi alle famiglie dei soldati, fecero sì che le mogli non cercassero più di seguire i mariti in campagna di guerra. La maggioranza dei servizi forniti in precedenza dalle ausiliarie furono assegnati a personale in uniforme, con il risultato che le forze armate furono più esclusivamente maschili di quanto non fossero mai state prima.[2]



Un’interessante novità fu introdotta nell’esercito britannico all’inizio della grande guerra: la creazione di un corpo di riserva femminile che selezionava le volontarie in base alle loro competenze, per poi reclutarle come civili. Scrive ancora Van Creveld: «Di solito esse si ritrovavano a servire nelle mense, a gestire apparecchi radio da casa, a fare le cuoche o le autiste. Il gruppo più numeroso era quello delle infermiere».[3]

Naturalmente non si deve scordare che le donne, nella grande guerra, ricoprirono anche il ruolo di spie. Molto celebre é il caso di Mata Hari.

Durante il 1917 in Gran Bretagna furono messe in uniforme circa 100 mila donne, ma non fu permesso loro di combattere. Idem nell’esercito Usa, dove furono arruolate 34 mila donne. In Italia le donne non vestirono nemmeno la divisa. Unica eccezione fu l’esercito russo. Qui, dopo la rivoluzione di febbraio, il ministro della guerra Kerensky approvò la creazione di un battaglione femminile su proposta di Maria Bochkareva, una contadina che aveva avuto dallo Zar il permesso speciale di arruolarsi e combattere. Maria era stata ferita due volte nei primi anni della guerra e per tre volte aveva ricevuto delle decorazioni al valore, guadagnandosi così il rispetto dei commilitoni maschi. Kerensky approvò la proposta della Bochkareva perché sperava che l’esempio delle donne sarebbe valso da stimolo ai soldati. Le cronache del tempo affermano che il Battaglione della morte (circa 300 donne) comandato dalla Bochkareva si comportò con coraggio, ma l’obiettivo di stimolare i soldati fu mancato. Questi, infatti, si sentirono più umiliati che stimolati e il loro desiderio di smobilitare crebbe.

Maria Bochkareva possedeva tutta la ferocia che la guerra necessita. Una volta le capitò di trovare una soldatessa ad amoreggiare con un soldato. Senza pensarci un attimo trapassò la donna con la baionetta, mentre l’uomo riuscì a sfuggirle.[4]

Il caso della Bochkareva sembra comunque, in virtù della sua eccezionalità, confermare la regola che la guerra é combattuta soprattutto dagli uomini.



Come abbiamo già sottolineato, la convinzione che i maschi abbiano una propensione naturale per la guerra è molto diffusa. A tal proposito l’attrice Jodie Foster ebbe ad affermare:



Le esperienze femminili sono nel 95% dei casi quelle delle vittime. Oppure di oppressione, oppure di sopravvivenza… le donne non vanno in Vietnam a distruggere ogni cosa. Non sono Rambo. [5] (traduzione mia)



Si potrebbe obiettare che se gli uomini fossero tutti Rambo gli Stati Uniti non avrebbero avuto bisogno della coscrizione obbligatoria per spingerli ad arruolarsi, e nemmeno di una cultura coercitiva che identificava il “vero” uomo con l’eroe, se non col violento vero e proprio.  L’ipotesi di una naturale propensione degli uomini alla guerra, dunque, appare perlomeno dubbia.

In un’intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica l’illustre professor Umberto Veronesi ha sostenuto che i testicoli sarebbero le ghiandole dell’aggressività (e quindi della violenza – nda), mentre le ovaie quelle dell’amorevolezza (sic).[6]

Gli uomini sarebbero, dunque, più violenti, più spietati, più crudeli per natura delle donne. L’esperienza non sembra però confermare nemmeno questa teoria. Presso alcune società degli indiani d’America (Cherokee, Iroki, Omaha e Dakota) le donne potevano torturare i prigionieri fino alla morte. Sapevano superare gli uomini in crudeltà soprattutto verso le prigioniere. Dopo la battaglia di Little Bighorn, le donne infierirono sui soldati morti o sui feriti riducendo i loro visi a un’atroce poltiglia di sangue.[7] Nel memoriale di Sant’Elena Napoleone ricordò che in occasione dell’assalto alle Tuileries, il 10 agosto 1792, gruppi di donne fecero scempio dei corpi dei soldati svizzeri morti.

La storia dell’umanità ci narra non solo di donne violente, ma anche di alcune la cui crudeltà supera ogni immaginazione. Si può ricordare il caso di Elisabeth Bathory, la Contessa sanguinaria, dedita sin dall’età di 16 anni a orgie e pratiche sadiche. Secondo le cronache del tempo avrebbe torturato e ucciso centinaia di giovani donne. Un altro esempio, più vicino ai nostri tempi può essere quello di Ilse Koch, moglie del comandante del campo di concentramento di Buchenwald. Ilse fu chiamata la “strega di Buchenwald” (o anche “iena” o “cagna”) dagli internati per la sua disturbante crudeltà. Si racconta che la sua tavola fosse sempre arredata con teschi umani. Un ulteriore caso può essere quello di un’altra nazista, Irma Grese, supervisore in diversi campi di concentramento. Irma godeva nel far divorare i prigionieri dai cani e arrivò a commettere violenze sessuali sulle deportate, prima di ucciderle a sangue freddo. Ma forse è sufficiente ricordare quello che è stato fatto nelle prigioni di Abu Grahib, per capire che anche le donne sono soggette a pulsioni di aggressività, violenza e sadismo, proprio come gli uomini. Non sempre le ovaie sono dunque capaci di produrre l’amore disinteressato, con buona pace dell’illustre prof. Veronesi.

Per fare la guerra, ovviamente, oltre all’aggressività, servono anche un forte senso dello stato e delle gerarchie, oltre alla disponibilità all’auto-sacrificio. Qualità che non sono monopolio dei maschi. Perché allora la guerra è sempre stata, con rare eccezioni, combattuta dai maschi? Un’ipotesi interessante ci è offerta dagli antropologi Philip L. Newman e David J. Boyd, riassunti così da Van Creveld:



Prima di qualunque altra cosa, la guerra è un’affermazione di virilità. (…) La vita delle donne è articolata in fasi ben distinte da fenomeni biologici: menarca, deflorazione, gravidanza, parto, menopausa. Le transizioni biologiche dell’uomo non sono così evidenti, ed è quindi necessario dare loro un’evidenza sociale.[8]



Sempre Van Creveld ha ricordato che ogni società del passato prevedeva dei temibili e dolorosi riti di iniziazione, mediante i quali il ragazzo poteva ottenere il riconoscimento sociale della propria virilità. Egli aggiunge inoltre:



Di tutte le attività che la specie umana può intraprendere, è chiaro che nessuna è idonea all’affermazione della virilità come la guerra. (…) Non sorprende, quindi, che nel libro dell’Esodo e in molte altre lingue tribali le parole “uomo adulto” e “guerriero” siano spesso intercambiabili.[9]



A questo proposito Maurice R. Davie ha scritto che i Fang del Congo francese, dopo aver ucciso qualcuno, ritornavano trionfanti al loro villaggio urlando: “siamo uomini - veri uomini”. Un’altra popolazione, gli Asaba, tributavano grande onore a chi avesse ucciso un nemico, conferendogli il nome di Obu, cioè killer.[10]

Van Creveld ci offre dunque una possibile spiegazione del perché alle donne, anche a quelle che ne avrebbero avuto le capacità e la vocazione, è stato sempre impedito di combattere. Solo stando all’esterno le donne avrebbero potuto ammirare la capacità militare degli uomini. Questi ultimi, inoltre, non potrebbero affermare la propria virilità combattendo contro le donne. Sia nella vittoria, sia nella sconfitta, sarebbero comunque disonorati.[11]

Dopo la seconda guerra mondiale, inizialmente a causa della diminuzione della natalità, e più tardi per le pressione dei gruppi femministi organizzati, gli eserciti delle potenze occidentali si sono aperti all’arruolamento delle donne. Nonostante questo, anche nell’era contemporanea la partecipazione femminile alle azioni militari vere e proprie è risultata abbastanza scarsa. È ancora Van Creveld a spiegarci il perché:



Fin dalle prime fasi dell’evoluzione della specie umana, il maschio è stato notevolmente più grosso e più forte della femmina (…). Uno studio condotto negli USA negli ultimi vent’anni ha evidenziato che la recluta femmina, rispetto alla recluta maschio, è 13 centimetri più bassa e 14,3 chilogrammi più leggera, possedendo 16,9 chilogrammi in meno di massa muscolosa, e 2,6 chilogrammi in più di massa adiposa. (…) La prima donna ad essere ammessa alla Citadel, una scuola militare nella Carolina del Sud, dovette ben presto ritirarsi a causa dello sfinimento indotto dal caldo.[12]



Egli aggiunge inoltre:



Anche morfologicamente le donne sono meno adatte alla guerra. Le ossa craniche più sottili, le vertebre più leggere e la mascella più debole proteggono poco le donne dai colpi. Molte donne hanno un seno ampio e cadente che impaccia i movimenti e deve essere opportunamente protetto. (…) Dei test fatti tra i cadetti del Corpo di Addestramento degli Ufficiali della Riserva hanno evidenziato che il 78 percento dei maschi, ma solo il 6 per cento delle femmine, era in grado di percorrere 2 miglia in meno di 14 minuti.[13]



L’invenzione della bomba atomica ha sostanzialmente reso impossibile la guerra tra le grandi nazioni. Proprio l’insorgere di questa novità é coincisa con l’ingresso sempre più massiccio delle donne negli eserciti, ottenuto anche grazie a requisiti fisici sensibilmente inferiori rispetto a quelli richiesti agli uomini.

L’inclusione delle donne negli eserciti è sicuramente un interessante esperimento sociale, ma ha prodotto almeno due problemi. Il primo è un’evidente diminuzione dell’efficacia combattiva degli eserciti. Il secondo è costituito dal divampare delle accuse di molestie sessuali e di comportamento “sessista” che, a giudizio di Creveld, hanno parecchio demoralizzato il morale delle unità miste.

Ogni passo con cui le donne si sono uniformate agli uomini è stato salutato unanimemente come un fulgido segno di progresso. Eppure l’ingresso delle donne nelle forze armate dell’occidente presenta problematicità che la stampa e i media tengono oculatamente nascosti.

Intanto, in quei paesi dove ancora la guerra è combattuta con armi convenzionali, ad esempio nel continente africano, le donne non solo continuano, nella quasi totalità dei casi, a non combattere, ma non chiedono neppure di essere arruolate.



Bruno Etzi, 9 marzo 2014
Pubblicato in origine (privo delle critiche a U. Veronesi) nel sito:  http://www.centoannigrandeguerra.it



[1] Cit. in Warren Farrell, The Mith of male power, Berkeley, 1994, p.142

[2] Martin Van Creveld, Le donne e la guerra, ieri oggi e domani, Goriziana, 2007, p. 112
[3] Ibidem, p. 142

[4] A cura di Bernard A. Cook, Women and War A Historical Encyclopedia from Antiquity to the Present, ABC-CLIO Ltd, 2006

p. 69
[5] Jodie Foster in The New York Times Magazine, 6 gennaio, 1991, p. 19.
[6] Intervista di Valeria Pini a Umberto Veronesi, I bisessuali domineranno l’umanità. Il futuro secondo Umberto Veronesi, La Repubblica, 2 settembre 2013
[7] Van Creveld, op. cit., p. 24
[8] Ibidem, p. 177
[9] Ibidem, pp. 179, 180

[10] Maurice R. Davie, The Evolution of War: A Study of Its Role in Early Societies, pp. 43-44

[11] Van Creveld, op. cit., p. 183
[12] Ibidem, p. 168
[13] Ibidem, p. 169

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