Kant - La Critica del Giudizio (1790)


Il problema della Critica del giudizio

Oltre le sfere teoretico-conoscitiva ed etico-pratica, trattate nelle due precedenti Critiche, nell'analisi di Kant c'è posto anche per un'altra sfera, che egli tratta nella terza delle sue Critiche, la Critica del Giudizio (più precisamente critica della facoltà del giudizio), pubblicata nel 1790. Tale sfera occupa una posizione intermedia tra quella conoscitiva e quella etica, rispetto alle quali svolge una funzione di “ponte”. Si tratta dell’opera più problematica e difficile tra le tre critiche kantiane


I risultati della teoria della conoscenza e di quella etica elaborate da Kant avevano dato luogo a «una distinzione netta tra regno della natura (o della necessità), conoscibile nei suoi aspetti fenomenici (con l'esclusione della cosa in sé o noumeno), e regno della libertà, con i suoi postulati relativi alle cose in sé alle quali dobbiamo credere, ma delle quali non possiamo avere alcuna conoscenza (l'io libero, l'anima immortale, Dio). Il regno della natura e quello della libertà risultano quindi separati» (Franco Restaino, Storia della filosofia, UTET, vol. 3/2).

La scissione dei due mondi non può essere accettata da Kant, in quanto la natura noumenica (che si manifesta nella libertà morale) deve potersi realizzare, almeno in parte, proprio nel mondo terreno.  In altre parole, un mondo in cui ogni avvenimento fosse determinato da cause cieche (come quello presupposto ad esempio nell’atomismo di Democrito) non darebbe alle esigenze di senso e spiritualità umane alcuna speranza. «La natura, oltre a essere conforme alla legislazione dell’intelletto, deve anche essere pensata come qualcosa che non impedisce, ma rende possibile la realizzazione degli scopi che in essa devono essere realizzati secondo la legge morale» (E. Severino, “La filosofia dai greci al nostro tempo - La filosofia moderna”)

Questa frattura tra mondo naturale e libertà può essere “superata”, secondo Kant, se riusciamo a trovare un ponte, cioè un fondamento comune, che li metta in comunicazione. In altre parole si tratta di vedere se, attraverso una terza facoltà,  che per Kant è il sentimento, intermedia tra quella dell'intelletto e quella della ragion pratica, l’uomo possa stabilire una qualche forma di intuizione (non di conoscenza nel senso della ragione pura) dell’esistenza di una spiritualità nella natura.



Il giudizio riflettente estetico e teleologico.

«Egli distingue subito tra il Giudizio trattato nella Critica della Ragion Pura, ovvero quella facoltà che applica un concetto puro a priori (una categoria) alle intuizioni provenienti dalla sensibilità e “preparateper il giudizio dall'immaginazione produttiva con i suoi “schemi”, e il Giudizio di cui parla nella Critica del Giudizio. Il primo dava come risultato quelle affermazioni o giudizi che qui Kant chiama determinanti, cioè conoscitivi; il secondo formula affermazioni o giudizi che Kant definisce riflettenti. Infatti il Giudizio della Critica del Giudizio non muove da categorie universali entro le quali ordina il materiale dei particolari empirici, ma muove direttamente da questi ultimi (un fiore, un gatto, un bosco, una statua), cioè dagli oggetti dei giudizi determinanti, e “riflettesu di essi mediante le universali esigenze di finalità e di armonia. «L’uomo che deve realizzare la sua libertà nella natura e senza contravvenire al meccanismo di essa, ha bisogno che la natura stessa sia in accordo con la sua libertà e in qualche modo la renda possibile con le sue stesse leggi» (N. Abbagnano, Storia della filosofia, Utet, p.540).

I fenomeni in sè stessi mostrano soltanto di essere dei momenti di una catena di cause ed effetti costituente il regno della natura; aggiungendovi la finalità, il Giudizio riflettente li rende partecipi del mondo della libertà, cioè li fa uscire dal mondo della necessità (Franco Restaino, ibidem). In un certo senso si può dire che il giudizio estetico si chiama riflettente poiché l’oggetto osservato “riflette” come uno specchio il bisogno di finalità che caratterizza l’osservatore. Il bello non è, dunque, un dato oggettivo ma soggettivo (anche se universale), in quanto non dipende dall’oggetto stesso ma dalla proiezione di un principio soggettivo trascendentale.

Come abbiamo già detto, il giudizio riflettente riflette sugli oggetti naturali «per scoprire il loro accordo con le esigenze della vita morale. (…) Ora quest’accordo può essere appreso immediatamente senza il tramite di un concetto, e allora il giudizio è un giudizio estetico; può essere pensato, mediante il concetto di fine, e allora il giudizio è teleologico» (N. Abbagnano, Storia della filosofia, Utet, p.540).



Il giudizio estetico:

A) Il bello

Che esistano giudizi di gusto è evidente a tutti. Si tratta di vedere se essi possano avere un valore universale. Se osservo un prato e questa visione suscita in me un sentimento di piacere (sento che il prato è bello), allora il giudizio riflettente possiede una finalità soggettiva (come se il prato esistesse per piacere a me che lo sto contemplando) e viene chiamato da Kant giudizio estetico o di gusto.

L’estetica empirista proveniente dall’area inglese (Burke, Hume) concepiva il bello come un’intuizione puramente sensibile, negando al giudizio estetico qualsiasi pretesa di universalità, dato il carattere del tutto soggettivo del sentimento di piacere o di dispiacere di cui si fa esperienza. Kant, pur tenendo conto delle analisi critiche di Hume, è invece convinto che sia possibile scoprire una “regola del gusto”. 

Kant distingue fra piacere estetico e altri tipi di piacere. Ad esempio il piacere legato ai sensi (giudizio estetico empirico) come quando, affamato, assaggio una pietanza gustosa (gradevole o piacevole) oppure il piacere morale,  che provo quando, ad esempio, vedo compiere una buona azione. Entrambi questi piaceri risultano “interessati” (a soddisfare la fame, a vedere affermarsi la giustizia). Il gradevole, essendo legato ai sensi, non aspira all’universalità (de gustibus non disputandum). Se io dico "il vino delle Canarie è gradevole" non ho problemi ad ammettere che ad altri tale vino possa non piacere. Il gradevole è dunque soggettivo nel senso di "personale". «Il piacere estetico (giudizio estetico puro) è invece per Kant del tutto disinteressato: quando formulo un giudizio estetico o di gusto (quel paesaggio è bello, quel dipinto è bello), non c'è nessun interesse che mi muove e non sono spinto neppure da esigenze conoscitive. Il giudizio estetico viene caratterizzato da Kant nella parte più nota dell'opera, l'Analitica del bello, secondo i quattro tipi di giudizio della logica tradizionale, che abbiamo già trovato nella Critica della Ragion Pura (quantità, qualità, relazione, modalità)» (Franco Restaino, ibidem). A differenza del piacevole il giudizio estetico è  soggettivo nel senso di "trascendentale", quindi, pur essendo soggettivo, vale per tutti.

Il bello sarebbe dunque sottratto alla mutevolezza dei sensi («il bello è ciò che è rappresentato, senza concetti, come l’oggetto di un piacere universale»). Kant rifiuta dunque ogni estetica edonistica o razionalistica. «La natura soggettiva del sentimento del bello non esclude la sua universalità; soltanto, questa universalità, non consiste nella validità oggettiva propria della conoscenza intellettuale, ma nella comunicabilità, cioè nella possibilità di essere condivisa da tutti gli uomini (N. Abbagnano, op. cit., p. 542). Il bello, inoltre, non ha per Kant nulla di utilitaristico. L'opera d'arte non possiede obbiettivi morali o educativi. Il bello non va confuso nè col piacevole, nè col bene, nè con l'utile.
La mia particolare situazione fisica (ad esempio se sono di cattivo umore, se ho mal di testa) potrebbe impedirmi di percepire il bello. L'influenza delle inclinazioni sensibili mi distoglie dall'apprezzare anche l'opera d'arte più bella, ma ciò non toglie che l'opera sia bella e che, una volta superata la condizione negativa, io riesca a percepire tale bellezza.

Kant, infine, distingue la «bellezza libera (per esempio quella dei fregi greci o degli arabeschi) che non presuppone alcun concetto, dalla bellezza aderente (per esempio quella di  una chiesa) che presuppone il concetto di ciò che quella cosa deve essere, cioè della sua perfezione» (N. Abbagnano, op. cit., p. 542). Il bello libero costituisce la bellezza più pura, perché non inerisce ad alcuna realtà mentre il bello aderente (che aderisce appunto ad un'immagine) è più difficile da cogliere perché è legato a un modello empirico che può essere condizionato dalle epoche e dalle culture.

Riassumiamo in uno schema le caratteristiche del giudizio estetico:








B) Il sublime

Affine al sentimento del bello è quello del sublime, con la differenza che il primo nasce dalla rappresentazione di una forma proporzionata, mentre il secondo si può trovare in un oggetto smisurato e informe. Il bello è un tranquillo e positivo sentimento di piacere (quando osservo qualcosa di armonico come un paesaggio, un animale, un’opera d’arte, una cattedrale gotica, o ascolto una brano musicale), mentre il sublime è un sentimento di piacere misto a dispiacere, di attrazione e repulsione. Noi sperimentiamo il sublime quando osserviamo qualcosa di inquietante, nella natura o nell'arte, che appare come immensamente grande (sublime matematico, per esempio un deserto, un ghiacciaio o il cielo stellato) o immensamente potente (sublime dinamico, per esempio l'oceano in tempesta, un terremoto o una bufera). «Di fronte alle gigantesche forze naturali l’uomo, dopo un moto di smarrimento e di dolore, recupera il sentimento della propria infinità, di un infinito che non può essere appreso mediante l’oggetto sensibile, ma che è presente in lui in virtù del suo stesso essere, come soggetto morale, infinito» (S. Veca, Filosofia, Bompiani). Naturalmente il sentimento del sublime lo si avverte solo se chi osserva non si trova in una situazione di pericolo (se osservo la tempesta da un sicuro riparo). Anche per il sublime vale ciò che abbiamo detto per il bello: il bisogno fisico non deve disturbare l'evento estetico.

Altri problemi trattati nell'estetica di Kant sono quelli dell'artista e dei tipi di arte. Egli mette in rilievo la differenza tra l'opera di un artigiano (ripetitiva) e quella di un artista (unica), il quale è tale, un genio, non perché impara ad esserlo ma perché ha ricevuto dalla natura un talento che non deriva dall'istruzione (Franco Restaino, ibidem). Il genio, nel produrre liberamente le belle forme, opera in analogia alla natura stessa.
 
In quest'opera Kant sostiene di aver compiuto una rivoluzione copernicana estetica, quando afferma di aver posto nel soggetto piuttosto che nell'oggetto il baricentro del giudizio estetico. La bellezza, per Kant, deriva dall'incontro tra le nostre facoltà spirituali e gli oggetti e vale dunque solo per la mente umana. Non è una qualità oggettiva.



Il giudizio teleologico

La riflessione del Giudizio sui singoli oggetti, che, come abbiamo già detto, non possiede una funzione conoscitiva (come nel giudizio determinante), riconosce negli oggetti una finalità.

Se osserviamo un albero, prescindendo da obiettivi conoscitivi (come, ad esempio, a quale specie appartiene, quanto pesa, qual è la sua età, ecc.), possiamo vedere una sua finalità oggettiva (lo scopo a cui tende lo sviluppo del seme), il giudizio riflettente viene chiamato da Kant giudizio teleologico, cioè finalistico (Franco Restaino, ibidem).

L’esperienza dei giudizi riflettenti, seppure condotta a un livello non conoscitivo, permette  a Kant di superare la concezione cartesiana puramente meccanicistica del mondo.  Il giudizio teleologico, pur non essendo determinante, «esprime un’esigenza della ragione di render conto di realtà del tutto inspiegabili da un punto di vista puramente meccanicista (S. Veca, Filosofia, Bompiani). In fondo la nascita della biologia apriva le porte a un superamento del meccanicismo come unico paradigma di comprensione, dato che lo studio degli organismi conduce fatalmente all’utilizzo dell’idea di finalità. Ad esempio, riflettendo sullo scheletro, diciamo che esso è stato prodotto al fine di reggere l'animale. Come lo stesso Kant ha sottolineato «non c’è nessuna ragione che possa sperare di comprendere, secondo cause meccaniche, la produzione sia pure di un solo filo d’erba».

Il giudizio teleologico pensa la natura come unità, come volta, al medesimo fine. Ogni parte della natura assomiglia dunque agli organi e agli apparati di un singolo organismo, e allo stesso modo concorre alla vita del tutto. Il fine della natura, in definitiva, non sarebbe altro che l’uomo stesso. Senza l’uomo, cioè senza un essere razionale, l’intera creazione sarebbe un inutile deserto. Ma l’uomo è il fine della creazione come essere morale; sicché la considerazione teleologica vale a dimostrare che per l’uomo la realizzazione degli scopi morali che si propone non è impossibile, dato che questi scopi sono gli stessi della natura in cui vive (N. Abbagnano, op. cit., p. 547).

Kant apre così la strada alla visione romantica della natura come immensa forza vitale che si concilia con l'uomo, e che è espressione della divinità.










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