mercoledì 7 ottobre 2015

Città e Comuni nel Medio Evo

Nel Medioevo le città erano delimitate dalle mura. Con la parola urbs si intendeva la città in senso fisico, con le sue case e le sue vie; invece con la parola civitas si intendeva la comunità, la città nel senso politico e sociale.

Nel corso dell'Alto Medioevo (476-1000 d.C.) l'alleanza tra Sacro Romano Impero e Chiesa aveva garantito alla Chiesa, a partire dal IV secolo, una serie di privilegi in materia di giurisdizione e di imposte. I vescovi, grazie anche al successivo sostegno dello stato franco, avevano quindi acquisito il potere di riscuotere le tasse e garantire l'ordine pubblico. Essi erano spesso coadiuvati da consigli di preti o di ricchi capi famiglia quando dovevano affrontare problemi di interesse generale. Ai tempi dell'Impero carolingio i grandi signori feudali, come i conti, avevano invece rinunciato ad una sede stabile, visto che le città non erano più sede di produzione artigianale e di commercio, ed erano soliti spostarsi continuamente nelle varie parti del loro territorio.

Le città, durante l'alto Medioevo (tra i secoli V e X), si erano spopolate a causa del caos generato dalle invasioni barbariche e dal conseguente crollo dell’impero. I pochi gruppi di esseri umani sopravvissuti si concentravano attorno ai rari luoghi fortificati, come le abbazie o le fortezze, sperando che un potente padrone potesse proteggerli dall'assalto dei pirati Saraceni o di altri predoni come i Normanni o gli Ungari.  É probabile che la diminuzione della popolazione sia stata causata anche da un generale raffreddamento delle temperature e dalle conseguenti carestie. Un esempio di questo spopolamento è Roma: la Roma imperiale aveva avuto sino a 1 milione di abitanti, mentre nell'epoca di Carlo Magno ne aveva circa 30 mila. Gli abitanti si erano concentrati nella zona intorno al Tevere, lasciando grandi spazi liberi. Solo le città sedi vescovili non si spopolarono mai del tutto. Pur molto ridotte nella popolazione rispetto a un tempo, attorno alle loro mura si sarebbero formate le nuove città quando, sul finire del X secolo, iniziò la ripresa economica.

Solo dopo il 1000 le città ricominciarono a popolarsi. Grazie alla costruzione di numerosi castelli promossa dagli imperatori e dai loro vassalli, le aggressioni si erano notevolmente ridotte. Un clima più secco e l’aumento delle temperature medie favorirono lo sviluppo dell’agricoltura. Accanto alle mura iniziarono a formarsi i borghi, agglomerati urbani abitati da commercianti, artigiani e professionisti vari (i borghesi) che resero la città più dinamica da un punto di vista commerciale, artigianale e culturale. La crescita delle città è testimoniata dalla creazione di nuove e più grandi cinte murarie che inglobarono i borghi.

 

 Le Arti

«Nei centri urbani si concentrò anche gran parte delle attività artigianali che in precedenza avevano luogo nelle campagne e che conobbero una progressiva specializzazione. L’esigenza di tutelare tali attività e le merci che esse producevano spinse tanto gli stessi artigiani quanto i mercanti, che si occupavano di commercializzare i prodotti, a organizzarsi in associazioni di individui dediti alla medesima professione o al medesimo commercio: le Corporazioni o Arti, come le si chiamava perlopiù in Italia (dal latino ars, “mestiere, tecnica”), o ancora gilde, denominazione utilizzata soprattutto in area tedesca e inglese (da Geld, la tassa che veniva imposta agli affiliati per le spese di interesse comune).

Le Arti avevano una struttura rigidamente gerarchica, al cui vertice si trovavano i priori e i maestri (i proprietari, cioè, dei diversi esercizi). Gli statuti corporativi, che dovevano essere rispettati da tutti gli iscritti, regolamentavano minuziosamente l’attività del settore professionale di appartenenza, dall’acquisto delle materie prime agli orari di lavoro, all’apprendistato dei praticanti, ai prezzi delle merci ecc. Le Arti avevano anche potere giurisdizionale: erano infatti dotate di propri tribunali, che emanavano sentenze valide per tutti i membri e riconosciute dai governi cittadini». (Borgognone, Carpanetto, L'Idea della storia, vol. 1, p.40).

 

Nascono i comuni

Negli ultimi anni del secolo XI, in molte città d'Italia, i capi famiglia (es: mercanti, artigiani, uomini di legge, cadetti della piccola nobiltà) stipularono un patto (coniuratio), che inizialmente valeva solo per chi aveva aderito. Si trattava quindi di associazioni volontarie e private. Dopo che le famiglie più importanti ebbero tutte aderito al patto, il Comune attirò nella sua sfera di potere tutta la cittadinanza e chiese a tutti il giuramento di fedeltà. Il potere dei comuni era facilitato dai lunghi periodi di assenza dell'imperatore. Germania e Italia dipendevano dallo stesso imperatore (trattato di Verdun, 843) che, preoccupato di tenere sotto controllo i grandi e riottosi principi tedeschi, preferiva risiedere in Germania. In tal modo le città italiane, libere dalla sgradevole presenza di un potere supremo, si sentirono motivate e giustificate a rendersi sempre più autonome.

In molte città si iniziarono ad eleggere dei rappresentanti, chiamati - come nell’antica Roma - consoli (da 2 sino 24), ai quali era affidato il governo della città. Il Comune si avviava dunque a diventare un vero e proprio stato, simile alla polis greca, che esercitava il proprio predominio anche sul contado, il territorio circostante. Il potere dei consoli, che comprendeva quello militare in caso di guerra, durava generalmente da 6 mesi a un anno al massimo e non poteva essere rinnovato, onde evitare derive dittatoriali. Tutto questo processo avvenne talvolta in accordo col vescovo oppure come risultato di un conflitto terminato con la cacciata dello stesso vescovo, che era sostituito con un altro eletto dal popolo. 

I primi comuni consolari (Lucca e Pisa) sorsero nel 1085. Nei decenni successivi molte altre città dell'Italia centro-settentrionale (Pianura Padana, Veneto e Toscana, in sostanza nel Regnum italicum, sorto con il trattato di Verdun dell'843) si dotarono di simili magistrature. Il regime consolare era espressione dei cittadini più ricchi, in esso la gente comune non aveva alcuna voce.
Anche in alcune zone delle Francia e della Germania sorsero dei comuni, anche se possedevano un minore grado di autonomia. Essi non eleggevano consoli, ma erano governati da esperti di diritto detti «scabini». 
Pur essendo un fenomeno principalmente italiano, il comune non riuscì a sorgere nel Centro Italia (nel 1143 era nato un comune a Roma, ma durò pochi anni) e nel Meridione per l'ostile presenza del regno dei normanni e di quello del papa.

Le città si spartirono il contado, il territorio che le circondava, così poterono esigere tasse dai contadini e ottenere un facile approvvigionamento alimentare.

Questo stato di cose fu contestato apertamente dagli imperatori germanici. In particolare, l'imperatore Federico I, soprannominato il Barbarossa dagli italiani, nella prima Dieta di Roncaglia (1154) presso Piacenza aveva, tramite un editto, spogliato i Comuni di tutte quelle regalie (diritti) che essi avevano usurpato all'autorità imperiale: imporre tributi, battere moneta, eleggere magistrati. Tali diritti avrebbero dovuto essere esercitati da un funzionario di nomina imperiale. Successivamente Federico, dopo varie battaglie e il saccheggio di Tortona, era stato incoronato re d'Italia a Pavia (1155), antica capitale longobarda, e aveva fatto catturare l'eretico Arnaldo da Brescia, promotore di una riforma moralizzatrice della Chiesa. Sceso sino a Roma, sciolse il libero comune sorto di recente e consegnò Arnaldo al papa Adriano IV, che lo fece condannare a morte per impiccagione. Il corpo dell'eretico fu poi arso e le ceneri furono disperse nel Tevere affinchè la salma non diventasse oggetto di venerazione. A Roma Federico fu incoronato imperatore dal papa. 
Dopo essere rientrato in Germania, tornò in Italia per domare le ribellioni dei comuni che intanto erano insorti. Sconfitte Brescia e Milano, egli convocò una seconda Dieta di Roncaglia (1158) in cui  emanò, con l'ausilio dei maestri di diritto dell'Università di Bologna, un decreto imperiale chiamato Constitutio de Regalibus, con cui ribadiva i suoi diritti sovrani sui comuni.

Le Università erano istituzioni laiche (non soggette al controllo delle autorità ecclesiastiche) di insegnamento superiore che erano sorte a partire dal secolo XI per iniziativa di maestri e studenti. Lo studio era organizzato in facoltà: le 7 arti liberali, il diritto, la medicina e la teologia. Gli insegnamenti erano impartiti in latino e le conoscenze erano certificate attraverso appositi esami. I titoli erano riconosciuti ovunque. Per quanto se ne sa, la più antica università è quella di studi giuridici di Bologna, fondata nel 1088. 

La Lega lombarda contro Barbarossa
Profittando delle endemiche divisioni tra i comuni italiani, nel 1162 l'imperatore assediò, espugnò e distrusse la città di Milano che si era opposta alle decisioni di Roncaglia. Nel 1164, a causa dei soprusi dei funzionari imperiali, sorse una coalizione detta Lega Veronese che, nel 1167, confluì con altri comuni del nord nella più ampia Lega lombarda. Secondo la tradizione il patto militare fu siglato in un monastero di Pontida (a metà strada tra Bergamo e Lecco). Dopo alterne vicende, in cui anche il papa Alessandro III fu avversario dell'imperatore, il Barbarossa venne duramente sconfitto nella Battaglia di Legnano (1176) dai Comuni italiani e nel 1183, con la Pace di Costanza, riconobbe ufficialmente le prerogative che i comuni avevano già di fatto conquistato precedentemente. L'ingerenza imperiale veniva limitata nettamente, ma i Comuni riconoscevano la formale dipendenza vassallatica dall'Impero.

L'istituzione consolare entrò in crisi tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo. All'origine di questa crisi erano le lotte tra le grandi famiglie aristocratiche e i ceti borghesi emergenti che si disputavano il primato in un clima di inimicizie, rancori e odi che finirono col logorare progressivamente la tenuta delle antiche magistrature comunali. A quella dei consoli si sostituì la figura politica del podestà. Tale carica doveva essere ricoperta, solitamente per sei mesi o un anno, da una persona non appartenente alla città che andava a governare, in modo da evitare coinvolgimenti personali nelle controversie cittadine, garantendo quindi l'imparzialità nell'applicazione delle leggi. Il podestà era dunque una specie di mediatore che deteneva il potere esecutivo, poliziesco e giudiziario. A lui spettava anche la presidenza del Consiglio dei savi, che votava a maggioranza le leggi.

A partire dall'inizio del secolo XIII i ceti borghesi, dopo essersi uniti nelle arti, affiancarono al podestà una nuova figura, quella del capitano del popolo, espressionde dei ceti nobiliari. creando un potere parallelo che acuì le tensioni interne alla città. “L’elezione del capitano, contrapposta alle preesistenti, finì per costituire un comune nel comune: il Commune populi, spesso contrapposto al Commune maius, l’uno rappresentato dai capitani del popolo, l’altro dai podestà. I capitani assunsero funzione antimagnatizia, cioè in contrasto con i magnati (cittadini nobili e ricchi o soltanto ricchi o che, pur non possedendo tali caratteristiche, intesero fondare un tipo di amministrazione oligarchica). Talvolta – accadde a Firenze – le Arti si costituirono addirittura in governo” (Ludovico Gatto, “La grande storia del Medioevo”, iBooks)

 

Immagine tratta da: Borgognone - Carpanetto, L'Idea della storia, Vol. 1, p. 48.

Federico II e l'ultimo sogno imperiale

Un altro momento di scontro tra imperatore e papa si ebbe ai tempi dell'imperatore Federico II.

Nel 1214 Filippo II di Francia sconfisse il re d'Inghilterra Giovanni I, detto Senzaterra (battaglia di Bouvines) e l'imperatore di Germania Ottone IV, conquistando alcune importanti province francesi; l'indebolimento di Ottone IV favorì la salita al potere di Federico II, già re di Sicilia dal 1208 e imperatore di fatto nel 1215 (l'incoronazione papale avvenne nel 1220).

Il suo regno, fortemente contrastato dalla Chiesa, fu caratterizzato da una forte attività legislativa e di innovazione artistica e culturale, al fine di unificare le terre e i popoli. Federico fu protettore di artisti e studiosi, ed egli stesso fu un apprezzabile letterato. La sua corte fu luogo di incontro fra le culture greca, latina, araba ed ebraica. Nel 1224, allo scopo di formare i funzionari imperiali egli fondò a Napoli uno Studium generale, la prima università fondata per decreto regio. 

«Nel 1231 nel castello di Melfi, in Lucania, che fu una delle numerose residenze italia­ne della sua corte itinerante, emanò, assistito dal giudice Pier della Vigna, suo consi­gliere di stato, il Liber augustalis, noto anche come Constitutiones melfitanae (Costituzioni di Melfi). Si trattava di una raccolta di leggi organica, fondata sul diritto romano e nor­manno, in cui l'imperatore riaffermava la sua superiorità sui feudatari e sulla Chiesa, riorganizzava la giustizia, affidandola a funzionari regi, e istituiva un apparato finan­ziario per la gestione del patrimonio demaniale e la riscossione di dazi e pedaggi.» (G, Maifreda, Tempi Moderni I, p. 92)


Dopo una lunga guerra contro i comuni del nord Italia, Enzo, uno dei figli di Federico, fu sconfitto e preso prigioniero nella battaglia di Fossalta (1249). L'anno dopo Federico morì senza aver potuto realizzare il suo sogno di restaurazione della grandezza passata dell'impero. Suo successore fu il figlio  Manfredi, che tentò di continuare l'opera del padre ma fu ucciso nel 1266 durante la battaglia di Benevento, sconfitto dalle truppe del fratello del re di Francia, Carlo I d'Angiò, chiamato in Italia dal papa Urbano IV. Nel 1268 anche Corradino, un nipote sedicenne di Manfredi e di Federico II, fu sconfitto in battaglia dai soldati di Carlo d'Angiò e decapitato. Il sogno imperiale degli Svevi era finito.

 

lunedì 5 ottobre 2015

Parmenide di Elea

Il viaggio simbolico verso la verità. Un ampio frammento contiene il proemio del poema in cui il filosofo racconta del viaggio che ha compiuto, sotto la guida delle Eliadi (le figlie del sole), verso la porta dalla quale si separano la via della luce, del giorno - da cui si accede al dominio della verità - e la via delle tenebre, della notte, dell'errore (vedremo poi che esiste anche una problematica terza via). Si tratta di un viaggio iniziatico, che ha come meta l'acquisizione di un sapere profondo, non accessibile a tutti. Secondo Sesto Empirico - medico e filosofo greco (180-220 d.C.) - le cavalle rappresenterebbero le passioni, la via sarebbe l’itinerario che la stessa anima compie con la guida della dea (la ragione) le fanciulle che guidano le cavalle sarebbero le sensazioni  (Contro i matematici, VII, 112 segg.).


Perché l'immagine del viaggio? Perché chi si mette per via accetta di confrontarsi con una serie di eventuali imprevisti lungo il percorso, di mettersi alla prova in situazioni diverse, maturando gradualmente la sua esperienza (così come nel modello dell'insegnamento iniziatico si procede per tappe successive verso il vero sapere). Inoltre il viaggio allude, in forma simbolica, allo sforzo intellettuale del pensatore che si distacca dal mondo dell'esperienza quotidiana e arriva alla conoscenza della verità, indicatagli, nella rappresentazione letteraria, dalla bocca di una dea. La stessa rappresentazione solenne della partenza del filosofo in compagnia di fanciulle divine accentua l'idea del distacco dalla vita usuale.


A prima vista, può sembrare che Parmenide, facendo riferimento alla dea guida da cui apprende la verità, si ricolleghi al modello dei poemi antichi, dove l'autore, accingendosi al racconto, invoca l'ispirazione della Musa. Ma nei contenuti il proemio parmenideo annuncia qualcosa di nuovo: mentre nei poemi antichi il poeta si affidava alla divinità perché lo aiutasse a narrare i fatti accaduti, qui la dea è presentata come portatrice di un messaggio che definisce ciò che può essere legittimamente detto e pensato dagli uomini (e insieme ciò che non può essere detto e pensato). La dea indica perciò a Parmenide la via che dovrà percorrere, la via della luce, accanto alla quale si aprono altre due vie: l'una impercorribile, la via delle tenebre e dell'errore, l'altra illusoria e ingannevole, ma di fatto percorsa dagli uomini (la quale nella prima parte del poema resta in ombra).


Indicare la via significa indicare un metodo per arrivare a una meta; dunque la dea insegna a Parmenide il metodo per procedere verso la verità, mostrandogli al tempo stesso come riconoscere la via impercorribile, cioè la via dell'errore.


L'opposizione essere-non essere. La via della luce dice «che è e che non è possibile che non sia»; la via delle tenebre, all'opposto, dice «che non è e che è necessario che non sia, perché il non essere non lo puoi pensare né esprimere».


  Proviamo a sciogliere il non facile linguaggio parmenideo, denso però di rilevanti contenuti filosofici. Innanzitutto osserviamo che nelle scarne formule dei discorsi che contraddistinguono le due vie si enunciano dei predicati verbali di cui non è precisato il soggetto; di qui l'emergere dell'opposizione radicale: è-non è.


Prendiamo ora in esame le parole inerenti alla via della luce, la via percorribile: dire che qualcosa è e che non è possibile che non sia, significa riconoscere la necessità di una certa affermazione e l'impossibilità dell'affermazione opposta. Essere e non essere sono qui considerati come assolutamente disgiunti, estranei l'uno all'altro.


II non essere assoluto. Quanto alla seconda via, quella impercorribile delle tenebre, che dice "che non è", bisogna tenere presente che il discorso di Parmenide si riferisce al non essere in senso assoluto, senza specificazioni.



Ricorriamo a un esempio per spiegare che cosa significa non essere assoluto. Se dico «il libro non è sul tavolo», con il predicato "non è" intendo che il libro non è (non si trova) in una certa posizione, ma non che il libro non è assolutamente, cioè non esiste. Allora, "non è" può voler dire sia non essere in qualche modo (non è sul tavolo) sia non essere assolutamente (non esistere).



Quando Parmenide usa il verbo "non essere", gli dà un significato assoluto: non essere, senza specificazioni equivale a non esistere. Ma ciò che non esiste assolutamente è il nulla. In questo senso allora risulta impossibile dire che qualcosa non è, perché equivarrebbe a dire (e a pensare) il nulla. La via delle tenebre è impercorribile per il pensiero appunto perché non è possibile né dire né pensare ciò che non è.



L'essere assoluto. Ma anche l'essere, il predicato "è", viene inteso da Parmenide in senso assoluto, senza specificazioni. Ci sono cose - come la penna - delle quali posso in qualche modo dire che non sono (la penna non è sul tavolo, non è blu, ecc,), pur essendo esistenti. L'essere di cui parla Parmenide è invece necessariamente (non è possibile che non sia). Questo comporta di conseguenza che le cose mutevoli (che ora sono, ora non sono) non appartengono all'essere e come tali non esistono. Eppure noi vediamo un mondo popolato di cose che divengono, che nascono, si trasformano e muoionoin che modo si concilia l'affermazione dell'essere come ciò che è assolutamente (escludendo la realtà del divenire) con l'esperienza comune? Secondo Parmenide in nessun modo; il rigore del pensiero - che afferma che l'essere è e non può non essere - costringe ad affermare che l'essere è assolutamente (che è l'opposto del nulla), mentre le cose mutevoli che appaiono nell'esperienza sono pura illusione.

La stella, la casa, l'albero sono l'essere? No, non sono l'essere. Ognuna di queste cose allora non è. Ma allora il mondo è opinione illusoria (doxa). (Emanuele Severino, Il caffè filosofico)

 

Essere, pensiero, linguaggio. Il modo in cui Parmenide imposta il suo discorso sull'essere e il non essere sottolinea il legame profondo che sussiste tra l'essere, il pensiero e il linguaggio (un legame che deve essergli parso tanto evidente da darlo in qualche modo per scontato). Esso costituisce il fondamento dell'intera riflessione parmenidea.

 

Solo ciò che è, ciò che non è non essere, può essere detto e pensato e, viceversa, solo ciò che può essere detto e pensato è. Come si potrebbe pensare il non essere, il nulla? Come si potrebbe dire il nulla? Pensare il nulla non è la stessa cosa che non pensare, annullare il pensiero?

Con l'affermazione dello stretto rapporto fra essere, pensiero e linguaggio si afferma un principio che, da Parmenide in poi, costituisce un elemento-base del discorso filosofico: è sempre e pienamente vero solo ciò che è necessario, ovvero ciò il cui opposto è impossibile. La proposizione «L'essere è» è sempre vera, mentre la proposizione opposta «L'essere non è» - data la disgiunzione radicale tra essere e non essere – dichiara qualcosa di contraddittorio, impossibile.



Gli attributi dell'essere. Quali caratteristiche contraddistinguono l'essere che si mostra sulla via della luce? Per definirle Parmenide ricorre a una forma di ragionamento, la confutazione, che, ammettendo il contrario di quello che vuole dimostrare, fa risaltare le contraddizioni, gli errori e le incongruenze che discendono dall'avere accolto determinate premesse iniziali.

Attraverso questo procedimento Parmenide dimostra che l'essere è uno, immobile (non sottoposto a movimento), immutabile, eterno, indivisibile. Per esempio, se si ammette che l'essere è molteplice, ciascuno di questi molteplici non è gli altri molteplici e quindi in qualche modo non è. Oppure, se si ammette che l'essere muta, passa cioè attraverso stati diversi (da caldo diventa freddo, da piccolo grande ecc.), al termine del processo di trasformazione esso non è quello che era prima o è quello che non era prima. Per non cadere in tali contraddizioni è dunque necessario concludere che l'essere è uno, immutabile, ingenerato, eterno, omogeneo e immobile.



Tra le proprietà dell'essere Parmenide include anche la finitezza. Se l'essere fosse infinito (non finito) sarebbe incompiuto e quindi mancante di qualcosa; ma se è privo di qualcosa significa che non è ciò di cui è privo. Anche in questo caso, dunque, ne verrebbe che l'essere in qualche modo non è, contro la disgiunzione assoluta tra "è" e "non è" che la via della verità impone. L'essere finito è descritto da Parmenide come una sfera compatta, la cui figura ben rappresenta il carattere di compiutezza, omogeneità e totalità che appartiene all'essere. Questa sfera perfetta - dice Parmenide nel poema - è avvinta, bloccata con robusti legami dalla Giustizia (Dike), che in tal modo le impedisce di allontanarsi da sé, cioè di divenire.



La terza via. Oltre alla via della verità e a quella dell'errore se ne apre una terza, lungo la quale si incamminano per lo piú gli uomini e che per certi aspetti si sovrappone alla via delle tenebre. Infatti nei discorsi dei mortali, i quali parlano delle cose molteplici e del loro divenire, si ammette sia la possibilità di dire "che è", sia la possibilità di dire "che non: " (la penna è sul tavolo e non è nella borsa), identificando cosí l'essere e il non essere.



Tuttavia - afferma la dea nella rappresentazione poetica - è opportuno conoscere anche le opinioni comuni e a questo argomento Parmenide dedica la seconda parte del poema sulla natura, di cui rimangono però pochissimi frammenti; di qui la difficoltà a ricostruirne le linee.


Come abbiamo visto «La luce, il cambiamento, il movimento, il non essere, il calore, la giovinezza, l'amore, la bellezza, la poesia» sarebbero tutte illusioni mentre la morte, ossia la notte, l'oscurità, l'immobilità e la pesantezza eterna della materia, sarebbe la verità (Karl R. Popper, Il mondo di Parmenide). Tutto l'Essere» sarebbe «come la luna, che è una massa oscura e senza mutamento, il cui crescere e calare sono dovuti al gioco illusorio della luce del sole». Di conseguenza potremmo dire che all’uomo non è accessibile la fredda verità ma solo la viva illusione sensibile. Forse, come ha suggerito il filosofo Karl Popper, dato che la verità non è veramente accessibile al mondo umano, che vive di illusione, era intento di Parmenide mostrare le piú accreditate tra le opinioni degli uomini, anche se non vere nel senso della verità piena che ha per oggetto l'essere immutabile, facendo riferimento al modo corrente di pensare e a ciò che appare agli uomini nel loro rapporto quotidiano con il mondo fisico: la molteplicità e le differenze, la nascita, la trasformazione e la morte delle cose. 

Forse, insomma, Parmenide voleva dire che non tutte le opinioni sono uguali, ma alcune sono migliori di altre. Ad esempio, l’opinione che la luna è un corpo opaco è migliore di quella che la pensa come dotata di luce propria. Esiste una verità assoluta, ma nella vita umana, fondata sul divenire, ha spazio solo l’opinione; per questo è importante scegliere le opinioni migliori.



Alétheia e doxa. La contrapposizione tra la verità e le opinioni dei mortali è espressa attraverso due temini: alétheia (ciò che non è nascosto) e dóxa (ciò che sembra).



Alétheia indica la verità innegabile e necessaria a cui si giunge mediante la ragione (la quale costringe a negare la molteplicità e il divenire perché contraddittori); dóxa sono le opinioni dei mortali, i quali accettano come realtà autentica quello che è loro illusoriamente mostrato dai sensi (appunto la molteplicità e il divenire), identificando in tal modo l'essere e il non essere. La differenza radicale tra essere e non essere, da un lato, tra verità e opinione, dall'altro, apre un grave problema che occuperà a lungo la scena filosofica greca, mettendo alla prova i successori di Parmenide. Parmenide ha affermato che il mondo dei sensi è illusione, ma anche l'illusione "è". Compare qui una contraddizione di difficile soluzione. 

La filosofia successiva avrebbe cercato di rispettare il rigore della ragione che afferma l'impossibilità di identificare essere e non essere, e nello stesso tempo "salvare" i fenomeni dell'esperienza (come, ad esempio, in Democrito).

 

 

domenica 4 ottobre 2015

Giordano Bruno: L’infinità dell’Universo dedotta dall’infinita potenza divina


Nei dialoghi del De l’infinito universo e mondi (1584) si trova l'esposi­zione più completa e sistematica della cosmologia e della fisica bruniana, i cui tratti essenziali erano stati già anticipati nella Cena delle ceneri, di pochi mesi precedente.