venerdì 3 marzo 2023

Jean Dumont, I falsi miti della Rivoluzione francese

 1. PERCHÉ RIFIUTIAMO DI CELEBRARE LE MENZOGNE RIVOLUZIONARIE

 

Presa della Bastiglia da parte del popolo

Si è trattato in realtà di sparuti gruppi di vagabondi e di disertori, che cercavano munizioni (armi), il popolo francese si è tenuto alla larga.

I capi rivoluzionari fanno solo dopo la loro comparsa, quando comincia lo sfruttamento politico. Non si è trattato di nessuna presa, ma di un ingresso dalla porta ordinato dal governatore. Infine, questo ingresso non ha avuto alcun significato nella storia della libertà, in quanto nella Bastiglia non veniva custodito nessun prigioniero politico e quindi la sua “presa” non ha liberato nessuno.

 

Epopea dei volontari dell'Anno II

Di questa “epopea” non smettono di riempirsi la bocca gli oratori politici, anche quelli che parlano per la destra, come Andrè Malraux quando ha celebrato la nascita della Quinta Repubblica nel 1958, a Place de la République a Parigi. (….)

I volontari furono «volontari obbligati» che scelsero in maggioranza sia la ribellione che la diserzione: vi sono stati 800.000 disertori su 1.200.000 chiamati alle armi nel 1794[1]. Inoltre questi pretesi volontari furono anche volontari comprati dall'autorità a prezzo molto elevato, scelti fra i vagabondi, da cui il soprannome di «eroi da 500 lire» (…) che venne dato loro dai vandeani, anch’essi «volontari obbligati» ribelli.

La pessima qualità di queste truppe ha prodotto una delle più spaventose carneficine della storia militare francese: nei primi mesi «200.000 vite umane sprecate», nota Pierre Chaunu[2].

 

Pretesa di «modernizzazione decisiva» portata dalla Rivoluzione

«Infatti (…) il decennio 1789-1799 rappresenta una catastrofe nazionale per la nostra economia d’avanguardia»[3].

Quest’ultima – favorita nel 1786 dal progetto del Mercato Comune iniziato sotto la monarchia con il trattato di libero scambio con l’Inghilterra – frana sotto la Rivoluzione. Bisognerà attendere i tempi “riparatori” della monarchia restaurataperchè i nostri scambi con l’estero, in un secolo XIX ampiamente cominciato, ritornino all’alto livello prerivoluzionario del 1788»[4]. Per l’esattezza bisognerà attendere l’anno 1825, durante il regno di Carlo X. La Francia avrà così accumulato più di un terzo di secolo di ritardo nello sviluppo economico e nel commercio internazionale, un ritardo che non ha mai più recuperato.

Lo storico di Cambridge D. W. Brogan ha scritto che, molto probabilmente, se non vi fosse stata la rivoluzione la Francia sarebbe stata alla testa dell'espansione economica dalla fine del secolo XVIII, ruolo che ha lasciato all'Inghilterra. È quanto constata all’epoca proprio un testimone inglese, il deputato Edmund Burke, osservatore delle vicende economiche e politiche, che scrive: "I francesi si sono dimostrati i più abili artefici della rovina che mai siano esistiti al mondo.  Hanno interamente distrutto il loro commercio e le loro fabbriche. Hanno fatto i nosti interessi, a noi che siamo i loro rivali, meglio di quanto venti battaglie (…) non avrebbero mai potuto fare".

 

La menzogna di un popolo al potere

La Comune del 10 agosto 1792 è costituita da un’esigua minoranza di attivisti che distrugge la monarchia, instaura la Repubblica ed esercita la dittatura dell’Anno I. Ora (…) Braesch ha mostrato che, dei suoi 176 membri iniziali, soltanto  soltanto due sono operai. Tutti gli altri soo borghesi, artigiani e intellettuali, oltre a tre militari.

Fra i loro capi, nota Pierre Gaxotte, «il presidente Hueguenin è un concussionario, Rossignol un assassino, Manuel ha rubato, falsificato e venduto la corrispondenza di Mirabeau: Hebert, controllore a teatro, è stato licenziato dai variétés per borseggio, Panis è stato cacciato dal Tesoro reale per appropriazione indebita».

A quel tempo esistevano i campagnonnages, organismi che raggruppavano l'élite operaia. Dopo che la rivoluzione sopprime tutte le associazioni operaie con la legge Le Chapelier, i Pierre Compagnonnages, «caduti in sospetto, (…) si rifugiavano una volta di più nella clandestinità» (…). Essi potranno rifiorire, come del resto l’economia, con il ritorno della monarchia nel 1815.

 

La menzogna della pretesa «felicità del popolo» sotto la Rivoluzione

Di fatto, la Rivoluzione è un martirologio operaio, come hanno abbondantemente mostrato gli storici di estrema sinistra. «Dal punto di vista sociale, le conseguenze dell’assegnato furono molteplici scrive lo storico comunista Albert Soboul, professore alla Sorbona —. Le classi popolari, vittime abituali dell’inflazione, subirono un aggravamento della loro condizioni di vita; compagnons e operai pagati in cartamoneta, videro abbassato il loro potere d’acquisto. La vita rincarava, l’aumento dei prezzi dei viveri produsse le stesse conseguenze della carestia»[5].

Del resto, il potere rivoluzionario — un potere borghese, come si è visto — conduce una politica sistematicamente antipopolare. Durante il famoso Anno II, «Saint-Just fa arrestare come sospetti alcuni operai in sciopero»[6] e la Comune di Parigi impone un tetto massimo salariale[7], che si traduce in una riduzione dei salari di circa un terzo. In questa situazione «le classi popolari sprofondano nella disperazione»[8]. «Uomini e donne cadono nelle strade per inedia, la mortalità aumenta, i suicidi si moltiplicano»[9]. Lo storico inglese Richard Cobb ha constatato che a Rouen, nei quartieri popolari, all’inizio dell’Anno IV, la mortalità raggiunse punte quattro volte superiori a quella normale: in questa città francese vi sono settecento morti in più al mese. Operai e operaie con i loro bambini vengono uccisi dalla fame e dal freddo[10]; a Parigi e nei dintorni, l’Anno IV si chiude con un’eccedenza di diecimila morti sulle nascite.

Il portavoce delle petizioni popolari, Jacques Roux, ha il coraggio di affermare che una simile situazione non sarebbe stata possibile sotto l’Ancien Régime (…).

Identica è la situazione per i contadini piccoli proprietari e per i braccianti. Come ha notato un altro storico comunista, Georges Lefebvre, predecessore di Albert Soboul alla Sorbona, la Rivoluzione «è costata molto cara»[11] ai contadini poveri. La soppressione dell’imposta ecclesiastica, della decima — fino ad allora a carico dei proprietari e l’espropriazione dei beni della Chiesa vanificano i considerevoli aiuti sociali che queste tasse e questi beni garantivano ai poveri in caso di maltempo, di carestia oppure per l’acquisto di sementi, e così via. La soppressione del regime signorile e della comunità rurale, la nascita della libertà di coltura e del diritto di recintare le terre, sopprimono di fatto la «comproprietà» — secondo la formula utilizzata da Albert Soboul — delle terre dei signori e dei contadini ricchi, che garantiva ai poveri i vecchi diritti comunitari, diritti di pascolo, di passaggio, di spigolatura, di raccolta delle ghiande e della legna, e così via, che permettevano ai poveri di sfruttare in seconda battuta i terreni, i prati e i boschi dei signori e dei ricchi, e così di nutrirsi, di avere un po’ di bestiame, di scaldarsi, di costruire.

 

La menzogna della pretesa di antiaristocratismo

Nel gergo rivoluzionario il termine "aristocratico" non designa un membro della nobiltà, ma un nemico della Rivoluzione. Così si considera aristocratico un operaio cattolico dell’Anjou o un contadino ribelle del Lozere.

Lo storico americano Donald Greer ha mostrato che, tra le vittime assassinate sotto il Terrore, soltanto l'8,5% appartiene alla nobiltà e dunque, il 91,5% di «aristocratici» appartiene al popolo[12].

 

La menzogna – o i limiti – del preteso «antimonarchismo» rivoluzionario

È certamente evidente che la rivoluzione ha distrutto la monarchia e ghigliottinato Luigi XVI. Ma è sicuramente falso che questo «antimonarchismo» sia stato più di un atteggiamento di circostanza della Rivoluzione, sia stato il suo vero progetto. Anzitutto nel 1789 non vi sono in Francia antimonarchici. «Nessuno, anche senza confessarlo, è repubblicano, constata Daniel Momet[13]. Non ve ne sono stati e non se ne trovano anche fra tutti i capofila degli intellettuali di allora, da François-Marie Arouet, detto Voltaire, a Guillaume-Thomas Raynal, da Denis Diderot a Jean-Frangois Marmontel, da Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert a Jean-Jacques Rousseau. Quest’ultimo parla anche dell’«insopportabile e odioso giogo degli uguali», unendosi a Voltaire che amava affermare: «Val meglio servire sotto un leone di buona razza che sotto duecento topi della mia specie».

 

La menzogna maggiore: la dissimulazione del vero progetto, cioè l’anticristianesimo

Ma, si dirà, se la Rivoluzione non è antiaristocratica nè antimonarchica, che cos’è? Essa è ciò che i suoi amici democratico-cristiani d’assalto si sono ingegnati a dissimulare fino ad oggi. Essa si spiega attraverso un mese chiave (…). Questo mese, che che va dal 7 luglio 1792 (monarchico) al 10 agosto successivo (quando viene distrutta la monarchia) rivela una specificità della rivoluzione più significativa di ogni altra, perché ribalta tutto.

 Questa specificità è l’anticristianesimo totalitario, la sola vera essenza della Rivoluzione francese e il suo unico vero progetto, iniziale e finale.

Il 14 luglio 1792 e nei giorni successivi, questo anticristianesimo totalitario, questa fede nei prodigi del sacrilegio fanno osare i gesti sistematici che abbiamo lasciato intravedere: massacri di sacerdoti che avvengono un po' dappertutto in Francia e per la prima volta nella storia della Rivoluzione. La distruzione della monarchia sarà il mezzo per garantire la generalizzazione di questi massacri di sacerdoti e l'annientamento della religione.

 

 3. PERCHÉ RIFIUTIAMO DI CELEBRARE LE IGNOMINIE RIVOLUZIONARIE

Queste ignominie rivoluzionarie, numerose e multiformi, sono l’origine specifica dei crimini totalitari moderni, il modello ben attrezzato e adattabile a cui seguiranno il Gulag sovietico e i Lager nazionalsocialisti.

• L’ignominia del Terrore poliziesco, modello della Gestapo e del KGB, e anche dei terrori folli e maniacali tipo Khmer rossi di Pol Pot. Infatti, il controllo poliziesco e la repressione sono dappertutto e in ogni istante nella vita rivoluzionaria. Il terrore poliziesco è tanto meticoloso quanto universale: «Da quando siamo liberi non possiamo più uscire dalla città senza un passaporto», viene gridato in una commedia teatrale durante la breve tregua termidoriana. Un passaporto interno? Sì, proprio come nell’Unione Sovietica staliniana. Ma questo passaporto interno evidentemente non è sufficiente. Nel comune di residenza bisogna anche poter esibire il certificato di civismo, rilasciato dal comitato rivoluzionario di quartiere, in cui risiede la feccia della società, come si è potuto osservare. Senza certificato di civismo non vi è possibilità di nutrirsi: viene richiesto dai panettieri per comprare il pane e dagli altri commercianti per acquistare gli altri alimenti. Inoltre, lungo la strada viene richiesto un passaporto sull’abbigliamento, dapprima solo per gli uomini, poi anche per le donne. Questo passaporto sull’abbigliamento deve manifestare l’entusiasmo, un entusiasmo obbligatorio perché, sotto la Rivoluzione, si è sempre «volontari obbligati». Si tratta della coccarda tricolore, resa obbligatoria per tutti i francesi e le francesi con un decreto della Convenzione del 3 aprile 1793, e con nessuna possibilità di rifiutare il simbolo, o di trovarlo poco adatto, o di desiderare ornamenti più personali. Per questa ragione molte donne la rifiutano e la Convenzione interviene di nuovo il 21 settembre 1793.

 

Passi tratti da: Jean Dumont, I falsi miti della Rivoluzione francese, Effedieffe, 1990.

 



[1] Pierre Gaxotte, La Rivoluzione francese, Mondadori, p. 418.

[2] Pierre Chaunu, La France, Parigi, 1982, p. 365.

[3] E. La Roy Ladurie, Prèface a Alfred Coban, Le sens de la Rèvolution Francès, Parigi, 1984, p. 12.

[4] D. W. Brogan, Le prix de la Rèvolution, Parigi 1953, p. 32 e pp. 38-39.

[5] Albert Soboul, Storia della Rivoluzione francese, Rizzoli, Milano, 1988, t. II p. 156.

[6] François Furet - Denis Richet, La Rivoluzione francese, Laterza, 1980, vol I, p. 302.

[7] Ibidem.

[8] Albert Soboul, Histoire de la Révolution française, Parigi, 1979, p. 156.

[9] Ibidem.

[10] Cfr. François Furet - Denis Richet, op. cit., vol. I, p. 423.

[11] Georges Lefebvre, Etudes sur la révolution française, 1963, pp. 246-268.

[12] Donald Greer, Incidence of the Terror during the French Revolution, Cambridge, 1951.

[13] Daniel Momet, Dictionnaire des lettres françaises, XVIIIe siècle, Parigi 1960.

 

martedì 17 gennaio 2023

Il significato del mito (o allegoria) della caverna

Spiegazione delle allegorie 

 

La caverna è in primis il mondo sensibile, l’impermanente mondo terreno contrapposto a quello eterno delle idee. Le sue pareti, come un impermeabile velo, impediscono la vista del mondo esterno. La caverna rappresenta l’opinione, la doxa (dal verbo dokeo, che in greco significa sembrare). Infatti delle cose mutevoli non si può avere scienza. Possiamo anche intendere la caverna come il simbolo della chiusura mentale, delle ideologie preconfezionate (le ombre proiettate dagli uomini che governano la caverna), del conformismo egoista, della prigionia dell’anima. Il prigioniero non vede solo le ombre delle cose artificiali, ma percepisce anche se stesso come ombra. Ha un’idea fallace di sé, frutto di una proiezione ordita da altri che egli non sa scorgere. La caverna è anche la visione materialistica di un mondo dove tutto è fugace e illusorio, un mondo cupo e incolore in cui manca un cielo a cui tendere. Nella caverna gli uomini vivono curvi, senza poter alzare lo sguardo al cielo.

Gli schiavi incatenati sono come dei bambini di fronte a un teatro di ombre cinesi. Scambiano la finzione per realtà. Non conoscono se stessi ma solo l'ombra di sé. Ignorano l’esistenza del mondo delle idee, convinti che il mondo sensibile sia tutta la realtà. Possiamo vedere in questi uomini l’attuale uomo massa, privo di pensiero critico e asservito al consumismo imperante.

Le catene sono l’ignoranza, la mancanza di educazione (apaideusia) e le basse passioni che ci tengono lontani dalla verità.

Le ombre simboleggiano la conoscenza superficiale delle cose, chiamata da Platone eikasia, immaginazione. Simboleggiano la vita inautentica, frutto di una rappresentazione artificiale.

Le statue simboleggiano gli oggetti del mondo sensibile la cui conoscenza è chiamata da Platone pistis (credenza);

Gli uomini che trasportano le statue sono i sofisti e i cattivi politici: i registi occulti dell’ignoranza della gente comune. Nel dialogo chiamato Sofista Platone dice espressamente che è tipico dei sofisti immergersi nel buio, nascondersi nella tenebra.

Il fuoco è il principio fisico con cui i primi filosofi spiegarono le cose. È anche un sole artificiale in miniatura, un lume fioco che ha malamente sostituito quello naturale.

La liberazione dello schiavo corrisponde all’azione liberante della filosofia (educazione = paideia) che spinge alla conversione (periagogè) dall’opinione alla scienza. La conoscenza cambia la nostra condizione, ci costringe (l'uomo viene trascinato per la salita che conduce al mondo esterno) ad abbandonare le opinioni stereotipate e a rinunciare al cieco istinto di affermazione di sè che ci tiene legati ad esse.  

Il mondo fuori dalla caverna è il mondo delle idee, l’iperuranio, il vero mondo. Il cielo e la terra possono essere intesi come lo spirito e il corpo che finalmente si sono riuniti. Per vedere il cielo è necessario assumere la statura eretta, ciò che distingue l’uomo dagli animali. La bellezza della terra e del cielo fa vibrare qualcosa nell'uomo liberato, nella bellezza del cosmo, e no più nelle misere ombre della caverna, si riflette l’essenza stessa dell’uomo. Uscire dalla caverna rappresenta quindi una rinascita. Nascere significa infatti venire dal buio alla luce. È la luce a far schiudere i semi, a far crescere gli alberi, a stimolare gli ormoni che permettono l'accoppiamento e la fecondazione. Senza la potente luce solare non ci sarebbe vera vita.

Le immagini riflesse e illuminate dagli astri sono le idee matematiche oggetto del grado di conoscenza detta dianoia, ragione discorsiva.

Il sole è l’idea del Bene, la conoscenza più alta che Platone chiama noesis. Il sole è ciò che origina e governa la vita  e rende possibile la  bellezza (senza la luce il mondo sarebbe monocromo come nella caverna) e la conoscenza. Il sole rappresenta anche l’unicità del vero. Il vero non può essere relativo, è uguale per tutti ed è ciò che ci rende davvero liberi.

Il ritorno nella caverna rappresenta il desiderio del filosofo di condividere con gli altri uomini la conoscenza della verità. Il cammino dell’uomo non è altro che un processo di unificazione, la verità è tale sono se è condivisa e universale. L’uomo che ritorna nella caverna si è liberato dagli “ismi” delle ideologie, sostituite da un profondo sentimento di pietà e da un desiderio di condivisione. L’individuo non può raggiungere un’autentica liberazione in solitudine, ma solo in comunione con gli altri.

 

L’uccisione del filosofo è il destino che viene riservato ingiustamente  (adikia) a chi si offre di liberare gli uomini dall’ignoranza e dalle basse passioni, che li tengono incatenati alla non verità del mondo apparente. Tale destino è quello riservato a Socrate. 

Naturalmente il primo significato che Platone vuol comunicare col mito è che la conoscenza è un percorso ascendente che passa per quattro gradi. I primi due, immaginazione (eikasia) e credenza (pistis), riguardano la caverna, cioè il mondo sensibile. Per questo non hanno a che vedere con la scienza ma solo con l’opinione. Gli uomini sono incatenati nella caverna fin dalla loro nascita. Non conoscono quindi l’esistenza del mondo esterno e non sono consapevoli di essere prigionieri della spelonca.

Sono invece scientifiche la conoscenza matematica (dianoia) e quella filosofica (noesis), che si trovano fuori dalla caverna.  La conoscenza è proporzionale ai 2 gradi della realtà, quella mondana e quella delle idee. Il progredire del conoscere dà luogo a un progredire morale, così come aveva insegnato Socrate (l’uomo buono è quello che conosce il bene, il male è frutto dell’ignoranza). 

Come il seme ha bisogno di affondare nella terra per poter poi innalzarsi verso la luce, anche l'uomo deve compiere l'esperienza dell'ombra per poter nascere in senso pieno. L’uscita dalla caverna rappresenta, infatti, la vera nascita, e la caverna può essere intesa come un utero in cui l’uomo è ancora un essere potenziale e dunque incompleto. Ogni nascita è però rischiosa e faticosa. Per questo l’uomo liberato, anche se ha visto le statue, continua per un po’ di tempo a credere che la vera realtà siano le ombre. Non vuole rischiare, sente le ombre, a cui è abiutato, come più rassicuranti. Per diventare uomini occorre però uscire dalla caverna intraprendendo un percorso di ascesa (anabasi) che costa fatica (gli occhi fanno fatica a vedere distintamente le cose reali) e impegno. Infatti l’uomo non esce dalla caverna sua sponte ma viene faticosamente trascinato nell’ascesa, simbolo della forza dell’educazione (dal latino ex-ducere, condurre fuori). Una volta fuori dalla caverna l’uomo pian piano si accorge della grandezza del mondo terreno e dei cieli e, quindi, della sua piccolezza. Questo significa che la conoscenza della verità comporta una svalutazione del proprio ego e la consapevolezza che sapere equivale a superare l’individualità per riconoscersi in una realtà più grande. Il ritorno nella caverna (catabasi) rappresenta il sentimento di pietà e di unità con gli altri, il tentativo di superare la separazione tra gli uomini. L'individuo non può raggiungere la perfezione etica da solo, ha bisogno del sostegno e della condivisione della comunità. 

Le moderne caverne sono ovviamente la tv e tutti gli altri mezzi di trasmissione di massa che offrono una rappresentazione capziosa e fuorviante della realtà. Solo la conoscenza del vero produce la consapevolezza delle falsificazioni.