L'ardore interventista nella Grande Guerra


Oggi può sembrare strano ma, allo scoppio della prima guerra mondiale, non solo i nazionalisti come Enrico Corradini o i futuristi come Filippo Tommaso Marinetti, ma anche scrittori come Thomas Mann, poeti come Ungaretti, democratici come Cesare Battisti e persino pacifisti a tutto tondo come Sigmund Freud si schierarono a favore dell’intervento.

Anche molte donne si sentirono inebriate dall’atmosfera di guerra: la danzatrice Isadora Duncan disse di essersi sentita "tutta fuoco e fiamme" all’idea della guerra (cit. B. Ehrenreich, Riti di sangue, p. 21); anche molte femministe, come l’inglese Christabel Harriette Pankhurst o italiane come Teresa Labriola e Irma Melany Scodnik, si schierarono a favore dell’intervento.
Come ha scritto Massimo Fini: «L’uomo teme la guerra, ma ne è anche attratto. Ne ha orrore ma ne subisce il fascino. Ancora oggi, nonostante tutto, i bambini continuano a giocare alla guerra, con i soldatini, con i fucili e le pistole finte, con l’immaginazione» (M. Fini, Elogio della Guerra, p. 15)
Essere interventisti non significava essere dei necrofili sanguinari, anche se la guerra costituiva una buona occasione per esprimere i sentimenti più crudeli e violenti. In linea di massima si diceva di sì alla guerra per amore della Patria. L’obiettivo principale degli interventisti era perlopiù il completamento  del processo risorgimentale con la conquista delle «terre irredente»: il Trentino e la Venezia Giulia, gli ultimi territori italiani ancora controllati dagli austriaci.
In ogni Paese coinvolto nella mobilitazione militare si verificò il trionfo del nazionalismo. Gli interventisti erano convinti di combattere una guerra giusta; i governi compirono ogni sforzo propagandistico per convincere le masse che la colpa era tutta dei nemici, dipinti come una congrega di barbari crudeli. Anche i partiti socialisti, in Germania, Francia e Inghilterra, abbandonarono le loro pregiudiziali pacifiste per schierarsi coi governi, accettando acriticamente la versione ufficiale di una guerra difensiva.
Secondo Carl Von Clausewitz, il grande teorico militare prussiano: «La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi». In questo senso gli obiettivi degli interventisti possono apparire “razionali”. Se la razionalità può aver avuto un certo gioco durante le guerre napoleoniche, è difficile dire altrettanto per la grande guerra, quando le armi avevano raggiunto un grado di distruttività enormemente superiore. Con la scienza del poi, è facile dire che i calcoli politici fatti all’inizio della guerra (la guerra sarà breve e vittoriosa, pensavano tutti) erano sicuramente sbagliati.  L’adesione psicologica alla guerra non può essere spiegata con motivi “razionali”. Dietro le mire politiche si celavano oscuri impulsi emozionali che provenivano dal profondo. Non si trattava tanto di emozioni distruttive, come aveva ipotizzato Freud, ma, come ha scritto B. Ehrenreich: «erano tra le più “nobili” che gli esseri umani hanno la fortuna di provare: erano sentimenti di generosità, di solidarietà, di abnegazione per una grande e degna causa» (B. Ehrenreich, ivi). Lo psicologo americano G. E. Patridge, nel suo volume The Psychology of Nations, ha parlato di una forma di estasi prodotta dal partecipare ai grandi eventi, dal sentirsi eroi vittoriosi; in breve si tratterebbe di una specie di «ebbrezza sociale, il senso da parte dell’individuo di essere parte integrante di un organismo e di perdersi in un tutto più vasto» (cit. in: B. Ehrenreich, ivi). Si tratterebbe dunque di una sorta di perdita dell’io, del superamento della propria individualità che avviene anche in altre esperienze come l’amore, la religione e la droga.
Anche se è difficile doverlo ammettere, è in guerra piuttosto che in pace che si producono i più forti sentimenti di solidarietà, compassione e abnegazione.
Ovviamente anche allora molti si schierarono contro l’intervento, probabilmente la maggioranza degli italiani. Di certo le madri dei giovani che sarebbero stati inviati al fronte o i contadini che avrebbero dovuto lasciare la terra per andare a combattere o gli operai che lottavano quotidianamente per sopravvivere, non erano granché entusiasti dello scoppio del conflitto. Una volta chiamati al fronte molti soldati si infliggevano delle auto-mutilazioni al fine di essere esonerati. Questo sembra mostrare chiaramente che l’uomo non aderisce in modo così spontaneo e istintivo a un evento terribile come la guerra, ma senza le giuste condizioni psicologiche un ipotetico “istinto aggressivo” non sembra essere per nulla sufficiente.
Furono soprattutto i giovani borghesi ad aderire alla guerra, specialmente intellettuali e studenti desiderosi di rompere la noia, di superare il senso di inutilità e di vincere la solitudine psicologica che la moderna società industriale aveva partorito dopo aver distrutto le relazioni sociali tipiche della società contadina. Anche un convinto pacifista come Erich Fromm dovette ammettere che:
«La guerra è eccitante persino se implica il rischio di perdere la vita e grandi sofferenze fisiche. Considerando che la vita della persona media è noiosa, tutta routine e senza avventure, l'atteggiamento di chi è pronto ad andare in guerra deve essere inteso anche come il desiderio di mettere fine al noioso tran-tran della vita quotidiana, di lanciarsi nell'avventura, l'unica avventura, in realtà, che la persona media può aspettarsi in tutta la sua vita. In una certa misura, la guerra rovescia tutti i valori. Incoraggia l'espressione di impulsi umani profondamente radicati, come l'altruismo e la solidarietà, impulsi che vengono mutilati dal principio dell'egocentrismo e della competizione indotti nell'uomo moderno dalla vita normale in tempo di pace. Le differenze di classe, anche se non scompaiono, si riducono notevolmente. In guerra l'uomo è nuovamente uomo, ha la possibilità di distinguersi, a prescindere dai privilegi sociali conferitigli dal suo status di cittadino» (Erich Fromm, Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano 1975, pag. 265).
La guerra era anche un’occasione per misurarsi. In molte culture primitive il giovane diventava adulto dopo aver superato una prova rischiosa, come uccidere una belva. Tra gli antichi spartani si diventava uomini mediante la krypteia, una caccia agli iloti (una sorta di schiavi), in cui i giovani spartiati mettevano alla prova la loro virilità uccidendo altri uomini.
La guerra forniva l’occasione di liberarsi della penosa esperienza di vulnerabilità che tutti viviamo da bambini. L’umiliante sensazione di debolezza lasciava il posto a una nuova percezione di sé: la preda si trasformava in predatore. Si ripeteva un’esperienza analoga a quella che gli ominidi dovevano aver compiuto decine di migliaia di anni fa, quando il rafforzamento della cooperazione di gruppo rese possibile l’uccisione di grandi e temibili animali. L’orrore del pericolo lasciava il posto all’inebriante sensazione di forza che deriva dalla cooperazione e dalla solidarietà.
Di certo l’entusiasmo iniziale per la Grande Guerra scemò presto quando ci si accorse che i combattimenti non avevano nulla di eroico. La forza fisica, il coraggio e l’ingegno non servivano a molto contro le mitragliatrici, i lanciafiamme e i carri armati. I soldati dovevano sopravvivere nelle trincee piene di fango, sterco, topi e pidocchi. Ha scritto Alfredo Graziani che «per restare incolume, il combattente ha un’arma principale, l’invisibilità; il che vuol dire abbarbicarsi alla terra, penetrare nella terra, diventare terra» (Alfredo Graziani, Fanterie sarde all’ombra del tricolore, p. 85). Il sentimento di appartenere a qualcosa di superiore, la Patria, scemò quando si vide che molti erano gli imboscati e gli approfittatori. La Patria iniziava ad apparire come un mostro crudele che si nutriva del sacrificio di centinaia di migliaia di giovani vite.
Dopo la prima guerra mondiale, ma soprattutto dopo la costruzione della bomba atomica al termine della seconda guerra mondiale, la guerra perse il suo antico carattere di “festa crudele”, per usare le parole di Franco Cardini; non era più un’esperienza estatica o una prova da superare per sentirsi più forti. Non aveva più nulla di eroico; era diventata sinonimo di pura distruzione. Di conseguenza anche il solo nominare la parola “guerra”, oggi è proibito. Come ha scritto Massimo Fini: « Oggi la guerra si fa, con cattiva coscienza e perciò non la si dichiara. Si preferisce chiamarla 'missione di pace', 'operazione di peacekeeping', 'intervento umanitario'» (M. Fini, Il caso Priebke e le regole della guerra, Il Fatto Quotidiano, 26 ottobre 2013). Le pulsioni aggressive che la guerra permetteva di suscitare con buona coscienza devono essere conculcate. La stessa aggressività è spesso considerata come un tabù ed è talvolta trattata come una mera patologia.
La guerra ha assunto connotati inauditi, è diventata un’operazione robotica di fredda chirurgia: si bombarda con droni teleguidati a migliaia di chilometri di distanza. Eppure quel bisogno di affermazione mediante l’assunzione del rischio rimane. Così si spiega l’esistenza di sport estremi come il paracadutismo, il base jumping, l’arrampicata, il parapendio e tanti altri. Se, almeno in un certo senso, il tempo della guerra è finito, rimane il bisogno di esprimere in qualche modo alcuni bisogni vitali profondamente radicati nell’animo umano. Si tratta di capire in quale modo questo potrà avvenire.
Bruno Etzi
Pubblicato nel 2014 nel sito: http://www.centoannigrandeguerra.it

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