L’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale fu sostenuto da tanti, ma la scelta cruciale fu decisa da pochissimi: il primo ministro Antonio Salandra, il ministro degli esteri Sidney Sonnino e il re Vittorio Emanuele III, la cui adesione fu però assolutamente determinante. La politica estera, infatti, rientrava tra le prerogative regie e l’articolo 5 dello Statuto albertino affermava che la dichiarazione di guerra spettava al re.
Quali erano le ragioni che spinsero Vittorio Emanuele verso la guerra?
Poco prima dello scoppio del conflitto il re era stato visibilmente turbato dagli episodi ricordati come la “Settimana rossa”, un'insurrezione popolare che era scoppiata ad Ancona e si era rapidamente estesa, tra il 7 e il 14 giugno 1914, dalle Marche alla Romagna e ad altre parti d'Italia. A guerra iniziata, repubblicani come Benito Mussolini e Peppino Garibaldi (un nipote del celebre Giuseppe che stava combattendo come volontario in Francia), non perdevano occasione per denunciare l’inerzia del sovrano. Anche alcuni intellettuali di destra come Giovanni Papini avevano detto che se il re non avesse marciato su Vienna avrebbe certamente perso il trono.
Il prestigio che sarebbe conseguito da un trionfo avrebbe permesso a Vittorio Emanuele di zittire i repubblicani e sostituire il sistema giolittiano con un governo autoritario. Le gravi tensioni sociali che potevano minare il futuro stesso della monarchia sarebbero state messe in sordina.
Come è noto, l’Italia nel 1914 era legata da un trattato militare difensivo con l’Austria e la Germania, che era stato firmato per la prima volta nel 1882. L’alleanza era stata rinnovata per l’ultima volta nel 1912. Tuttavia, il 2 agosto, all’inizio della guerra, il Governo italiano aveva potuto legittimamente decidere la neutralità, dato che non si trattava di un conflitto difensivo e che il Governo austriaco non aveva consultato quello italiano prima di inviare l’ultimatum alla Serbia. La guerra avrebbe potuto produrre una modifica dei possessi austriaci nei Balcani, mentre il Trattato di alleanza vietava espressamente una simile eventualità senza previo compenso territoriale per l’Italia. Il governo austriaco, dopo l’invio dell’ultimatum, aveva comunicato al ministro degli esteri italiano Antonino di San Giuliano di considerare difensiva la guerra contro la Serbia. Una bugia plateale che irritava gli italiani e ne coartava ogni velleità di compensi territoriali.
Malgrado Vittorio Emanuele avesse controfirmato la Triplice Alleanza, possiamo legittimamente sospettare che non fosse così convinto di dover onorare gli impegni presi. L’atteggiamento di superiorità e i giudizi sprezzanti che il Kaiser tedesco Guglielmo II aveva riservato all’Italia non dovevano averlo affatto entusiasmato. Il re, con compiaciuta slealtà, aveva informato l’ambasciatore inglese delle intenzioni ostili dei tedeschi, rivelando anche il piano d’attacco che avrebbe dovuto cogliere di sorpresa i francesi. Egli, inoltre, era complessato da un fisico minuto (Giovanni Papini, in un articolo sfuggito alla censura, l’aveva definito “ridicolo nano”), e «non poteva dimenticare le umiliazioni subite da Guglielmo II, quel presentarglisi tra ussari altissimi quasi per sottolineare ancora di più quanto fosse meschina la sua statura» (S. Bertoldi, Vittorio Emanuele III, p.181). Egli non nutriva simpatia nemmeno per l’imperatore d’Austria poiché «non perdonava a Francesco Giuseppe lo sgarbo di non ricambiare a Roma la visita di suo padre Umberto a Vienna; (e) di non averlo fatto per non irritare il papa» (Ivi, p.182).
Se l’Italia fosse entrata in guerra era improbabile, quindi, che si sarebbe schierata con gli imperi centrali. Il ministro degli esteri San Giuliano, convinto sostenitore della Triplice, era morto il 16 ottobre 1914. Il suo successore, Sidney Sonnino, negoziò l’intervento italiano evoluendo su entrambi i fronti. Chiese a Francesco Giuseppe le terre irredente (Trento e Trieste), per poter pretendere ancora di più dall’Intesa. Sonnino e Vittorio Emanuele temevano il dominio austro tedesco sull’Europa. Un’Austria vittoriosa avrebbe mantenuto la promessa pattuita cedendo le terre irredente? O si sarebbe vendicata dell’Italia? Il dubbio era più che legittimo. Francia e Inghilterra erano certamente più affidabili, dato che promettevano terre altrui. Inoltre, dopo la sconfitta tedesca sulla Marna, che aveva confutato il mito dell’invincibilità tedesca, il re e i suoi ministri si erano persuasi che la guerra stesse per concludersi a favore dell’Intesa.
Dopo aver considerato tutti i pro e i contra della scelta di campo, il re e Sonnino si decisero, dunque, a suggellare un patto segreto con le potenze dell’Intesa (Patti di Londra, 26 aprile 1915). Giunti a quel punto occorreva convincere il Parlamento, per fas et nefas, ad abbandonare le sue pregiudiziali neutraliste e ad accettare il ribaltamento delle alleanze. Da un punto di vista strettamente legale, la votazione dell’Assemblea non era vincolante. Però un conflitto osteggiato dalla maggioranza dei deputati non era certo auspicabile per un re e per un Governo che si dicevano rappresentanti della Nazione. Se il Parlamento non avesse aderito alla guerra, anche i patti di Londra sarebbero saltati, facendo di Vittorio Emanuele «un uomo che mancava alla parola data e avrebbe lasciato l’Italia, per la prima volta dal 1882, senza alleati e con un maggior numero di nemici» (D. Mack Smith, I Savoia re d'Italia).
In quel maggio tumultuoso gli oratori interventisti come D’Annunzio si esibivano in esercizi declamatori volti a diffondere l’illusione che la maggioranza degli italiani fosse a favore dell’intervento. Giolitti fu accusato di essere un traditore della patria e additato al pubblico disprezzo. La sera del 12 la polizia dovette proteggere coi cavalli di frisia la sua abitazione da una folla inferocita. Il giorno seguente trecento deputati vi si recarono per lasciarvi il proprio biglietto da visita, solidarizzando col vecchio statista e ribadendo così il
proprio orientamento neutralista. Salandra, consapevole di essere in minoranza, rassegnò le proprie dimissioni il 13 maggio. Giolitti, contattato dal re, si disse indisponibile a formare un nuovo governo. Egli era ufficialmente all’oscuro dei patti di Londra, dato che né il re né Sonnino gli avevano comunicato nulla. Ma si trattava di un segreto di Pulcinella, giacché alcuni giornali francesi avevano subito spifferato la notizia. In tale situazione il suo neutralismo avrebbe messo l’Italia contro tutti gli stati in conflitto. Per di più in quei giorni di vacanza governativa erano divampati alcuni violenti moti di protesta che facevano temere l’insurrezione minacciata dai repubblicani.
Il re annunciò la sua abdicazione nel caso la Camera, convocata per il 20 maggio, si fosse opposta alla guerra. Giolitti presentì che ostacolare i piani del Governo avvallati dal sovrano avrebbe condotto a una crisi istituzionale dalla conseguenze imprevedibili. Non volendo giungere a queste conseguenze estreme, si piegò e chiese ai suoi di accettare l’inevitabile per salvare l’onore dell’Italia.
Il 20 maggio la Camera, con 407 voti favorevoli, 74 contrari e 1 astenuto, votò la fiducia a Salandra e gli conferì pieni poteri in caso di guerra. Il giorno dopo il Senato confermò tutto all’unanimità. Dei patti di Londra si continuò a tacere, nonostante lo Statuto albertino prevedesse l’obbligo di voto parlamentare per i trattati che originassero variazioni territoriali. Il Parlamento continuò ufficialmente ad ignorarli sino all’inizio di dicembre, quando il Governo ne comunicò l’esistenza senza peraltro riferirne i contenuti. Il testo dell’accordo divenne pubblico solo alla fine del 1917, quando fu rivelato a tutti dal Governo rivoluzionario bolscevico.
Vittorio Emanuele III, il piccolo re, rischiando il massimo in un pericoloso gioco d’azzardo, aveva vinto. Il Parlamento neutralista era stato piegato. L’Italia entrava in guerra in forza di un larvato colpo di stato. Il re, che appena salito sul trono era stato acclamato come democratico, svelava il suo più autentico volto. La strada verso l’autoritarismo era stata spianata, non restava che percorrerla. Senza fretta.
Bruno Etzi
Pubblicato in origine (2014) nel sito http://www.centoannigrandeguerra.it
Fonti utilizzate:
Silvio Bertoldi, Vittorio Emanuele III, Utet, 1989
Denis Mack Smith, I Savoia re d'Italia, Rizzoli, 1992
Gianni Oliva, I Savoia, A. Mondadori, 1999
Giuliano Procacci, Storia degli italiani, Laterza, 1968
Il Ministero degli esteri annuncia al Parlamento che l’Italia ha firmato il patto di Londra, La Stampa, 2 dicembre 1915
Quali erano le ragioni che spinsero Vittorio Emanuele verso la guerra?
Poco prima dello scoppio del conflitto il re era stato visibilmente turbato dagli episodi ricordati come la “Settimana rossa”, un'insurrezione popolare che era scoppiata ad Ancona e si era rapidamente estesa, tra il 7 e il 14 giugno 1914, dalle Marche alla Romagna e ad altre parti d'Italia. A guerra iniziata, repubblicani come Benito Mussolini e Peppino Garibaldi (un nipote del celebre Giuseppe che stava combattendo come volontario in Francia), non perdevano occasione per denunciare l’inerzia del sovrano. Anche alcuni intellettuali di destra come Giovanni Papini avevano detto che se il re non avesse marciato su Vienna avrebbe certamente perso il trono.
Il prestigio che sarebbe conseguito da un trionfo avrebbe permesso a Vittorio Emanuele di zittire i repubblicani e sostituire il sistema giolittiano con un governo autoritario. Le gravi tensioni sociali che potevano minare il futuro stesso della monarchia sarebbero state messe in sordina.
Come è noto, l’Italia nel 1914 era legata da un trattato militare difensivo con l’Austria e la Germania, che era stato firmato per la prima volta nel 1882. L’alleanza era stata rinnovata per l’ultima volta nel 1912. Tuttavia, il 2 agosto, all’inizio della guerra, il Governo italiano aveva potuto legittimamente decidere la neutralità, dato che non si trattava di un conflitto difensivo e che il Governo austriaco non aveva consultato quello italiano prima di inviare l’ultimatum alla Serbia. La guerra avrebbe potuto produrre una modifica dei possessi austriaci nei Balcani, mentre il Trattato di alleanza vietava espressamente una simile eventualità senza previo compenso territoriale per l’Italia. Il governo austriaco, dopo l’invio dell’ultimatum, aveva comunicato al ministro degli esteri italiano Antonino di San Giuliano di considerare difensiva la guerra contro la Serbia. Una bugia plateale che irritava gli italiani e ne coartava ogni velleità di compensi territoriali.
Malgrado Vittorio Emanuele avesse controfirmato la Triplice Alleanza, possiamo legittimamente sospettare che non fosse così convinto di dover onorare gli impegni presi. L’atteggiamento di superiorità e i giudizi sprezzanti che il Kaiser tedesco Guglielmo II aveva riservato all’Italia non dovevano averlo affatto entusiasmato. Il re, con compiaciuta slealtà, aveva informato l’ambasciatore inglese delle intenzioni ostili dei tedeschi, rivelando anche il piano d’attacco che avrebbe dovuto cogliere di sorpresa i francesi. Egli, inoltre, era complessato da un fisico minuto (Giovanni Papini, in un articolo sfuggito alla censura, l’aveva definito “ridicolo nano”), e «non poteva dimenticare le umiliazioni subite da Guglielmo II, quel presentarglisi tra ussari altissimi quasi per sottolineare ancora di più quanto fosse meschina la sua statura» (S. Bertoldi, Vittorio Emanuele III, p.181). Egli non nutriva simpatia nemmeno per l’imperatore d’Austria poiché «non perdonava a Francesco Giuseppe lo sgarbo di non ricambiare a Roma la visita di suo padre Umberto a Vienna; (e) di non averlo fatto per non irritare il papa» (Ivi, p.182).
Se l’Italia fosse entrata in guerra era improbabile, quindi, che si sarebbe schierata con gli imperi centrali. Il ministro degli esteri San Giuliano, convinto sostenitore della Triplice, era morto il 16 ottobre 1914. Il suo successore, Sidney Sonnino, negoziò l’intervento italiano evoluendo su entrambi i fronti. Chiese a Francesco Giuseppe le terre irredente (Trento e Trieste), per poter pretendere ancora di più dall’Intesa. Sonnino e Vittorio Emanuele temevano il dominio austro tedesco sull’Europa. Un’Austria vittoriosa avrebbe mantenuto la promessa pattuita cedendo le terre irredente? O si sarebbe vendicata dell’Italia? Il dubbio era più che legittimo. Francia e Inghilterra erano certamente più affidabili, dato che promettevano terre altrui. Inoltre, dopo la sconfitta tedesca sulla Marna, che aveva confutato il mito dell’invincibilità tedesca, il re e i suoi ministri si erano persuasi che la guerra stesse per concludersi a favore dell’Intesa.
Dopo aver considerato tutti i pro e i contra della scelta di campo, il re e Sonnino si decisero, dunque, a suggellare un patto segreto con le potenze dell’Intesa (Patti di Londra, 26 aprile 1915). Giunti a quel punto occorreva convincere il Parlamento, per fas et nefas, ad abbandonare le sue pregiudiziali neutraliste e ad accettare il ribaltamento delle alleanze. Da un punto di vista strettamente legale, la votazione dell’Assemblea non era vincolante. Però un conflitto osteggiato dalla maggioranza dei deputati non era certo auspicabile per un re e per un Governo che si dicevano rappresentanti della Nazione. Se il Parlamento non avesse aderito alla guerra, anche i patti di Londra sarebbero saltati, facendo di Vittorio Emanuele «un uomo che mancava alla parola data e avrebbe lasciato l’Italia, per la prima volta dal 1882, senza alleati e con un maggior numero di nemici» (D. Mack Smith, I Savoia re d'Italia).
In quel maggio tumultuoso gli oratori interventisti come D’Annunzio si esibivano in esercizi declamatori volti a diffondere l’illusione che la maggioranza degli italiani fosse a favore dell’intervento. Giolitti fu accusato di essere un traditore della patria e additato al pubblico disprezzo. La sera del 12 la polizia dovette proteggere coi cavalli di frisia la sua abitazione da una folla inferocita. Il giorno seguente trecento deputati vi si recarono per lasciarvi il proprio biglietto da visita, solidarizzando col vecchio statista e ribadendo così il
proprio orientamento neutralista. Salandra, consapevole di essere in minoranza, rassegnò le proprie dimissioni il 13 maggio. Giolitti, contattato dal re, si disse indisponibile a formare un nuovo governo. Egli era ufficialmente all’oscuro dei patti di Londra, dato che né il re né Sonnino gli avevano comunicato nulla. Ma si trattava di un segreto di Pulcinella, giacché alcuni giornali francesi avevano subito spifferato la notizia. In tale situazione il suo neutralismo avrebbe messo l’Italia contro tutti gli stati in conflitto. Per di più in quei giorni di vacanza governativa erano divampati alcuni violenti moti di protesta che facevano temere l’insurrezione minacciata dai repubblicani.
Il re annunciò la sua abdicazione nel caso la Camera, convocata per il 20 maggio, si fosse opposta alla guerra. Giolitti presentì che ostacolare i piani del Governo avvallati dal sovrano avrebbe condotto a una crisi istituzionale dalla conseguenze imprevedibili. Non volendo giungere a queste conseguenze estreme, si piegò e chiese ai suoi di accettare l’inevitabile per salvare l’onore dell’Italia.
Il 20 maggio la Camera, con 407 voti favorevoli, 74 contrari e 1 astenuto, votò la fiducia a Salandra e gli conferì pieni poteri in caso di guerra. Il giorno dopo il Senato confermò tutto all’unanimità. Dei patti di Londra si continuò a tacere, nonostante lo Statuto albertino prevedesse l’obbligo di voto parlamentare per i trattati che originassero variazioni territoriali. Il Parlamento continuò ufficialmente ad ignorarli sino all’inizio di dicembre, quando il Governo ne comunicò l’esistenza senza peraltro riferirne i contenuti. Il testo dell’accordo divenne pubblico solo alla fine del 1917, quando fu rivelato a tutti dal Governo rivoluzionario bolscevico.
Vittorio Emanuele III, il piccolo re, rischiando il massimo in un pericoloso gioco d’azzardo, aveva vinto. Il Parlamento neutralista era stato piegato. L’Italia entrava in guerra in forza di un larvato colpo di stato. Il re, che appena salito sul trono era stato acclamato come democratico, svelava il suo più autentico volto. La strada verso l’autoritarismo era stata spianata, non restava che percorrerla. Senza fretta.
Bruno Etzi
Pubblicato in origine (2014) nel sito http://www.centoannigrandeguerra.it
Fonti utilizzate:
Silvio Bertoldi, Vittorio Emanuele III, Utet, 1989
Denis Mack Smith, I Savoia re d'Italia, Rizzoli, 1992
Gianni Oliva, I Savoia, A. Mondadori, 1999
Giuliano Procacci, Storia degli italiani, Laterza, 1968
Il Ministero degli esteri annuncia al Parlamento che l’Italia ha firmato il patto di Londra, La Stampa, 2 dicembre 1915
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