La Rivoluzione Russa

Nel febbraio del 1917 (secondo il calendario russo), il regime zarista, guidato dalla monarchia assoluta dei Romanov, fu travolto dalla ribellione di una popolazione stremata dalla guerra, ma già da tempo oppressa da una condizione sociale insostenibile.
L'immenso impero russo si estendeva dal mar Baltico all’oceano Pacifico e comprendeva moltissime nazioni oltre ai russi: finlandesi, ucraini, mongoli, polacchi, georgiani, armeni e altri. Questa molteplicità di nazioni metteva a rischio la stabilità dell’impero. I russi costituivano solo il 44 per cento del totale. 

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L'espansione della Russia tra  il 1300 e il 1945




La Russia tra l’800 e l’inizio del ‘900.
Seppur in ritardo rispetto agli altri stati europei anche la Russia di fine ‘800 si stava avviando alla modernità. Lo zar Alessandro II nel 1861 aveva abolito la servitù della gleba permettendo a venti milioni di contadini liberi di riscattare, seppur a caro prezzo, la terra sulla quale lavoravano.
In conseguenza di tale riforma ci fu un copioso aumento della produzione di frumento fino al superamento di quella degli Stati Uniti d'America. L'esportazione del frumento a basso prezzo in Europa, dati i bassi salari dei braccianti, permise la disponibilità dei capitali necessari agli investimenti nell’avvio di una prima fase di industrializzazione.

Le industrie
Gli stati industrializzati occidentali vendevano alla Russia industrie funzionanti e complete di tutto, formavano tecnici e operai e assistevano la produzione per i primi anni.
I primi settori a decollare furono il tessile e il siderurgico. Di enorme rilievo furono i progressi in campo petrolifero, tanto che nel 1910 la Russia produceva un quarto del petrolio consumato nel mondo.
Su una popolazione di 160 milioni di persone solo cinque milioni lavoravano nell’industria ed erano concentrati in poche grandi città (Pietrogrado, Mosca, Kiev, Rostov, Odessa, Baku).
Questi lavoratori costituivano una base molto politicizzata e sindacalizzata: proprio da loro sarebbe partita la Rivoluzione del ‘17. Il debito coi paesi esteri colpì in particolar modo i contadini, che dovettero pagare delle tassazioni indirette. Il prezzo degli affitti salì e quello del grano scese. Gli effetti furono deleteri.
La domenica di sangue e la rivoluzione del 1905
Nei vari territori dell'impero e nelle maggiori città russe erano abbastanza frequenti le ribellioni. Tra queste ebbero grande rilievo le sommosse del 1905. Il dispotismo assoluto dello zar, minato dalla caduta di Port Arthur nella guerra russo-giapponese, venne contestato da una serie di manifestazioni popolari iniziate a Pietroburgo il 9 gennaio 1905 (22 gennaio per il calendario Gregoriano), quando l'esercito aprì il fuoco su un corteo di 150 mila pacifici dimostranti che si muovevano verso il Palazzo d’Inverno (residenza dello Zar) guidati dal prete ortodosso Georgy Gapon. I dimostranti non erano pregiudizialmente contro lo zar e alcuni di loro portavano icone e ritratti di Nicola II che chiamavano il “piccolo padre”. Essi tuttavia chiedevano il suffragio universale, la convocazione di un'Assemblea Costituente che riformasse il Paese, la libertà di sciopero e la riduzione dell'orario di lavoro degli operai da 11 a 8 ore. I cosacchi reagirono con spari e sciabolate uccidendo (secondo i dati ufficiali, certamente in difetto) circa 140 persone, tra cui alcuni bambini, e ne ferirono altre centinaia. La gente iniziò a perdere la fede nello zar.  Poco dopo iniziò uno sciopero generale e il 4 febbraio fu ucciso il governatore generale di Mosca. Focolai insurrezionali iniziavano a diffondersi in molte città industriali.
 
Scioperi e ammutinamenti
La sconfitta contro il Giappone e la domenica di sangue avevano acceso nell’esercito dei desideri di ribellione. Fu però la difficile situazione economica interna a fornire il combustibile delle rivolte. Un notevole impulso venne dai gruppi socialisti che, agendo soprattutto nelle grandi città e tra le masse operaie, tentarono di trasformare la rivolta in una rivoluzione. Fu in questa occasione che vennero fondati i primi soviet operai, dei consigli elettivi di cittadini che dovevano fungere da cellula base di una democrazia di massa (1 delegato ogni 500 operai). Tra questi il più importante era quello della capitale San Pietroburgo. Scoppiarono ribellioni anche  tra i militari come quella dei marinai di Kronstadt e  di Sebastopoli. Il 27 giugno 1905, le provviste di carne brulicanti di vermi innescarono le proteste dei marinai dell'incrociatore Potëmkin a Odessa. Quando un ufficiale sparò ad un marinaio l’ammutinamento esplose con durezza. La nave salpò e si diresse verso la Romania, dove la ciurma chiese asilo politico.[1]

Lo Zar concede la Costituzione
Per salvare il proprio potere lo zar promise, col cosiddetto manifesto di ottobre, l’elezione di un Parlamento legislativo (Duma) eletto con un complesso sistema che escludeva dal voto la maggior parte dei russi meno abbienti, e in ottobre emanò una Costituzione. Così le insurrezioni si affievolirono e i soviet vennero sciolti con la forza. Lo zar riscosse il sostegno dei borghesi liberali, che vennero chiamati ottobristi. La Duma era affiancata da una Camera alta, detta Consiglio di Stato dell'impero (i cui membri erano per metà nominati dallo Zar e per l’altra metà eletti dai nobili e dai ceti più alti), ed ebbe poteri fortemente limitati. «I ministri erano responsabili solo verso lo zar e la Duma non aveva alcun controllo sulle voci di bilancio che riguardavano le spese militari e navali né sull’aumento dei prestiti esteri» (Wood, p. 35). Ovviamente l’esistenza di una camera alta con facoltà di bloccare le proposte della Duma costituiva un limite ancora più grave. Lo zar aveva anche il diritto di sciogliere la Duma e mantenne il controllo dell'Okhrana, la temibile polizia segreta.
Le prime due Dume furono elette e subito sciolte dallo Zar perché dominate dai riformatori. Solo nel novembre del 1907, dopo una ulteriore restrizione del diritto di voto favorevole ai proprietari terrieri (l'uno per cento della popolazione, quella più ricca, sceglieva quasi i due terzi dei grandi elettori della Duma), fu eletta un’assemblea conservatrice che rimase in carica sino al 1912. Ad ogni modo, la rivoluzione del 1905 aveva inaugurato un decennio di conflitti politici e sociali che il regime zarista non riuscì mai a controllare completamente, e pose le basi per le rivoluzioni del 1917.

I socialdemocratici
Nel 1898 era nato il partito socialdemocratico che aveva come obbiettivo la rivoluzione marxista. Nel 1902 uno dei suoi leader, Vladimir Lenin, pubblicò a Stoccarda il pamphlet Che fare?, in cui sosteneva che soltanto il partito, composto da freddi e spietati rivoluzionari di professione, conosceva i bisogni dei lavoratori, ancor più dei lavoratori stessi che, lasciati a sé stessi, si sarebbero limitati a chiedere migliori condizioni di lavoro e aumenti salariali.
Nel Congresso di Londra del 1903 il partito (che in Russia era illegale) si divise in due correnti: menscevichi e bolscevichi. I menscevichi erano guidati da Martov. La parola menscevico in russo significava di minoranza, poiché i seguaci di Martov erano stati messi in minoranza nel Congresso (anche se erano maggioranza nel partito). I menscevichi, coerentemente con la teoria marxista, ritenevano che occorresse completare il processo di industrializzazione per poter passare dal capitalismo al socialismo. Sostenevano, quindi, un'alleanza strategica con la borghesia per il conseguimento di riforme politiche e sociali.
Questo allo scopo di portare il Partito socialdemocratico ad essere legalmente riconosciuto e affermarsi attraverso libere elezioni politiche. I menscevichi, insomma, credevano nel libero confronto delle opinioni e in un graduale avvicinamento a una società giusta.
I bolscevichi ("di maggioranza" in lingua russa) rifiutavano la democrazia parlamentare ed erano favorevoli ad un partito elitario composto da rivoluzionari convinti. Il loro leader Lenin non credeva al libero dibattito e intendeva imporre con qualsiasi metodo la rivoluzione proletaria.
 
Menscevichi e bolscevichi si divisero dando luogo a due partiti distinti nel 1912.
Il contrasto tra bolscevichi e menscevichi riproduceva il disaccordo tra riformisti e massimalisti creatosi tra i socialisti occidentali. In Europa occidentale, tuttavia, l’economia borghese non aveva impedito la nascita e la legalizzazione dei sindacati e dei partiti socialisti. In Russia invece tutti i poteri appartenevano alla nobiltà zarista, mentre la borghesia, numericamente modesta, aveva scarso peso politico. Inoltre il liberalismo non aveva dimora e la polizia era particolarmente spietata contro ogni forma di organizzazione politica o sindacale.

Lenin e i bolscevichi
Vladimir Ulianov detto Lenin era un esponente della piccola nobiltà terriera che, dopo aver compiuto studi di diritto, era diventato uno dei leader del partito bolscevico.
Egli aveva rovesciato l'idea Marxista secondo cui la rivoluzione della classe operaia si sarebbe compiuta nei paesi più industrializzati come conseguenza del crescente sfruttamento degli operai da parte della borghesia.
Lenin sosteneva, al contrario, che la rivoluzione avrebbe avuto luogo nei paesi più arretrati e poveri per le insostenibili condizioni di vita dei lavoratori. Questa elaborazione del pensiero marxista venne poi definito marxismo-leninismo.
Secondo Lenin la parte più politicizzata e "cosciente" della popolazione aveva il compito di guidare e di fornire i metodi e le strategie a tutti gli altri anche a costo di imporli con la forza.
Il suo minuscolo partito, che veniva finanziato anche coi proventi di rapine in banca, sarebbe quindi diventato la guida e l'avanguardia rivoluzionaria di una nuova società comunista.
La dittatura del proletariato (cioè il dominio del proletariato sulle altre classi che avrebbero poi finito con lo scomparire) e la collettivizzazione dei mezzi di produzione avrebbero segnato il nuovo mondo auspicato da Lenin. La collettivizzazione avrebbe dovuto riguardare anche le terre riscattate da milioni di contadini dopo l'abolizione della servitù della gleba. Quindi si prospettava una società senza proprietà privata, senza classi sociali e senza religione.


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I contadini
Dal punto di vista economico la campagna russa presentava situazioni e figure diverse. I contadini costituivano complessivamente l’85% di tutti gli abitanti dell’impero. Tra il 1906 e il  1914 il ministro Stolypin aveva abolito le quote di riscatto della riforma di Alessandro II e favorito il finanziamento di crediti agevolati per chi voleva acquistare dei terreni statali; nacquero così 7 milioni di nuovi proprietari terrieri fedeli al governo dello zar. Questi contadini proprietari di appezzamenti medi e grandi, di piccole fattorie, di stalle con capi di bestiame erano chiamati kulaki. La riduzione delle terre comuni, che pure aveva permesso l'aumento della produttività, ebbe però come effetto negativo quello di condannare a una vita di miseria e stenti i contadini poveri  che non potevano più utilizzarle per il pascolo,  la caccia, la raccolta della legna e dei frutti.
I contadini russi erano in gran parte analfabeti e legati a una cultura orale fatta di racconti e di leggende, di favole e di avventure. Erano anche fortemente tradizionalisti e molto religiosi. Fra loro la Rivoluzione di Lenin avrebbe trovato scarse adesioni.
I contadini preferivano di gran lunga sostenere il Partito social rivoluzionario, che era stato fondato nel 1901. Esso era erede del populismo russo che, nato nella seconda metà dell'800, si proponeva l'emancipazione dei contadini e la fine dell'autocrazia zarista.  Il Partito social rivoluzionario, che nei primi anni utilizzò ampiamente il terrorismo contro alti dignitari del regime zarista, intendeva coinvolgere le masse contadine nella guerra contro il regime zarista col fine di realizzare l'espropriazione delle terre signorili e demaniali per darle in uso alle comunità rurali democratiche. Il programma dei social rivoluzionari esprimeva meglio di quello dei socialdemocratici le esigenze delle masse russe.

La rivoluzione di febbraio
Coinvolto nella prima guerra mondiale, il grande impero russo aveva dimostrato la fragilità e la debolezza della sua organizzazione politica e militare. Mentre le numerose sconfitte mettevano a nudo l'impreparazione dell'esercito, la produzione agricola, a causa del conflitto, si riduceva sempre di più.
Durante l'inverno 1916-17 vi fu una grave inflazione accompagnata da una dura carestia e molte città rimasero prive di generi alimentari. La fame provocò sollevazioni popolari e disordini. La fiducia nello zar era giunta a livelli minimi. Un oscuro monaco, Grigorij Rasputin, era stato accolto come guaritore e consigliere  a corte sin dal 1906. Il figlio dello zar Alessio era infatti affetto da emofilia e la zarina Alessandra si era convinta che il monaco riuscisse, grazie a misteriosi poteri taumaturgici, a curare le frequenti crisi in cui precipitava il bambino. La presenza del monaco era però equivocata dalla gente, ignara dei motivi che gli avevano permesso di accedere alla cerchia dei regnanti, e molti la ritenevano nefasta.
 A inizio febbraio il presidente della duma arrivò a minacciare lo zar: «Voi stesso sarete spazzato via e non regnerete più... Voi e il vostro governo avete rovinato tutto, la rivoluzione è inevitabile».


Nel febbraio 1917 violente dimostrazioni operaie contro il governo imperiale scoppiarono a Pietrogrado (Pietroburgo aveva così cambiato il nome nel 1914). Il 23 una manifestazione per la “giornata della donna” portò, malgrado il gelo, migliaia di donne in piazza a protestare contro la carestia. A queste si aggiunsero turbe di scioperanti delle industrie e gente comune che si lamentava per il prezzo del pane. La truppa si rifiutò di sparare sulle donne e finì per unirsi ai manifestanti. L'imperatore Nicola II fu costretto ad abdicare a favore del fratello Michele, il quale tuttavia rifiutò di assumere il potere. Cessò così di esistere l'impero degli zar.  Era avvenuta la
cosiddetta «rivoluzione di febbraio». 
  Dopo il crollo della monarchia zarista, due forze si organizzarono spontaneamente per prendere in mano le sorti della Russia: da una parte la borghesia liberale, dall'altra gli operai e, in minima parte, i contadini. Si formò un governo provvisorio, guidato da un principe liberale, Georgij L’vov, che aveva l'appoggio dei socialrivoluzionari, dei menscevichi e della borghesia rappresentata dal Partito Costituzionale Democratico, chiamato partito dei cadetti, nato durante la rivoluzione del 1905. Di matrice borghese liberale, il partito dei cadetti intendeva far nascere un parlamento elettivo sul modello degli stati dell'Europa occidentale.
Gli operai delle fabbriche, i contadini delle zone prossime alle città e i soldati formarono, come nel 1905, dei soviet che avrebbero dovuto governare le fabbriche, le città, i villaggi e i reparti dell'esercito.
Ogni fabbrica ed ogni reggimento eleggeva un certo numero di delegati che concorrevano a formare il soviet cittadino, che intendeva rappresentare la volontà popolare e si presentava come una specie di contropotere rispetto al governo provvisorio. Quest'ultimo
prese la fatale decisione di continuare la guerra. Aveva infatti bisogno del riconoscimento degli stati alleati. Anche il Soviet di Pietrogrado, diviso al suo interno, accettò malvolentieri la decisione. Una pace immediata sarebbe stata certamente apprezzata dalle classi popolari, che avevano patito le sofferenze più dure, ma comportava rischi di gravi e impopolari mutilazioni territoriali. La situazione politica russa era molto strana: «nel palazzo di Tauride dovevano convivere forzatamente due gruppi: il gabinetto del principe L’Vov, che governava senza potere, e il soviet che deteneva il potere senza governare». (Wood, p. 49)
 
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Il palazzo di Tauride all'inizio del '900
 
Lenin e le tesi d’aprile
Al fine di favorire l’uscita della Russia dal conflitto gli uffici ministeriali tedeschi decisero di far rientrare in patria alcuni esuli bolscevichi, tra i quali Lenin, che era esiliato in Svizzera, nella speranza che essi riuscissero a prendere il potere e chiedere la pace.
Il 3 aprile Lenin giunse dopo un lungo viaggio compiuto in un vagone piombato (bloccato dall’esterno) alla stazione Finlandia di Pietrogrado. Il gior­no seguente, stupì i bolscevichi con un discorso perentorio in dieci punti, pubblicato poi sulla Pravda, il principale giornale bolscevico (che però non lo approvò), col titolo Tesi di aprile. Lenin esortó tutti a rompere ogni collaborazio­ne col governo provvisorio. Per lui bisognava uscire dalla guerra (che egli definiva imperialistica), confiscare i latifondi per distribuire le terre ai contadini e cedere tutto il potere ai soviet. Lenin intendeva superare la repubblica parlamentare (secondo lui al servizio dei borghesi) in favore di una repubblica dei soviet degli operai e dei contadini. Alla fine la sua posizione persuase la maggioranza dei bolscevichi ma non gli altri socialisti, che lo consideravano poco meno che un folle. Documenti pubblicati alcuni anni fa dalla rivista Der Spiegel, dimostrano che il governo tedesco non si limitò a permettere il rientro di Lenin, ma finanziò il suo partito con milioni marchi. 

La Rivoluzione d’ottobre
Nel luglio 1917 un'offensiva dell'esercito russo fu fermata dai tedeschi e si risolse in un ennesimo disastro militare. Un tentativo dei bolscevichi di prendere il potere a Pietrogrado fallì e molti esponenti del partito furono arrestati. Lenin, evitò l'arresto fuggendo in Finlandia. Il 21 luglio L’Vov si dimise e la guida del governo fu affidata al socialrivoluzionario Kerenskij, già ministro della guerra e vice presidente del soviet di Pietrogrado, nella speranza che questi potesse riconquistare il consenso popolare.
Purtroppo la situazione militare non conobbe alcun progresso e Kerenskij finì per indebolirsi gradualmente. Alla fine di agosto egli dovette perdipiù affrontare il pericolo un colpo di stato tentato dal generale Kornilov, comandante supremo dell'esercito. Per sventare il golpe, che era volto a stabilire una dittatura militare, Kerensky liberò dalle prigioni centinaia di bolscevichi che organizzarono la resistenza armata a Pietrogrado. Kerensky, dopo aver destituito Kornilov, restò al potere ma al prezzo di aver ristabilito il prestigio dei bolscevichi che divennero forza maggioritaria nei soviet di Pietrogrado e di Mosca. La situazione economica era disastrosa e il valore del rublo era un decimo di quello del 1914. 
Durante la notte fra il 6 e il 7 novembre 1917, formazioni armate bolsceviche guidate da Lev Davidovic Trotzsky, strettissimo collaboratore di Lenin, occuparono le stazioni ferroviarie, gli arsenali, le centrali del telegrafo, del telefono e dell'acqua, tutti i nuclei strategici che garantivano il funzionamento di Pietrogrado. La sera del 7 novembre, dopo che l'incrociatore Aurora aveva sparato un colpo per dare il via all'assalto, i bolscevichi conquistarono il palazzo d'inverno, un'antica residenza imperiale dove era riunito il governo Kerenskij, che riuscì a fuggire in automobile. Formalmente il potere era ora nelle mani del Congresso dei soviet e del Soviet dei commissari del popolo (il governo), ma di fatto queste strutture statali erano subordinate al Comitato Centrale (Politburo), l'organo dirigente del Partito Comunista Sovietico. Al posto dei vecchi tribunali furono creati i Tribunali del popolo, i cui giudici erano nominati dal Partito bolscevico.
Il calendario Giuliano, ancora in uso in Russia al tempo era indietro di 13 giorni, e la data del 7 novembre corrispondeva al 25 ottobre. Fu questa sfasatura a determinare il nome di Rivoluzione d'Ottobre.
Le prime iniziative prese dal governo rivoluzionario furono l'impegno a firmare una pace immediata con la Germania (firmata poi a Brest- Litovsk nel marzo successivo) e un decreto che confiscava le grandi proprietà terriere. Con altri decreti si stabilì il controllo degli operai sulla produzione industriale. Gli altri partiti furono dichiarati fuorilegge.

La guerra civile
La frazione dell’esercito rimasta fedele a Kerensky (ormai molti generali lo consideravano il nemico di Kornilov) provò a riconquistare il potere ma fu sconfitta l’11 novembre. Lenin non aveva potuto impedire l’elezione dell’Assemblea Costituente prevista per il 12 novembre, perché ciò gli avrebbe inimicato le masse. Così quando le elezioni si tennero il loro esito fu nefasto per i bolscevichi che raggiunsero appena il 24% dei voti, mentre il partito socialrivoluzionario, che era nato nel 1902 e sosteneva un programma di socializzazione delle terre in antitesi con quello bolscevico di nazionalizzazione, ebbe più del 40%. Potendo contare su cospicue forze militari, Lenin sciolse subito l’assemblea, ordinò di sparare contro i manifestanti favorevoli all'assemblea e procedette a consolidare la dittatura del suo partito che cambiò nome in comunista.
Dopo l'armistizio con la Germania (5 dicembre) la situazione continuò ad essere drammatica: in tutto il paese si preparava infatti la guerra civile. Mosca, più lontana dal confine stabilito con la pace di Brest-Litovsk, sostituì Pietrogrado come capitale il 10 marzo 1918.

Contro il governo rivoluzionario si schierarono i generali rimasti fedeli allo zar, e le loro milizie furono dette armate bianche. La controrivoluzione trovò l’appoggio delle regioni che volevano costituirsi in repubbliche indipendenti come l’Ucraina, la Georgia, il Caucaso e l'Armenia.
Le grandi potenze: Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Giappone, per evitare che la rivoluzione si allargasse fuori dai confini russi, inviarono deboli truppe a sostegno delle armate bianche.
Lenin e Trotzkij reagirono senza esitare. Trotzkij in persona organizzò un esercito fedele alla rivoluzione, l’Armata rossa. Egli era stato dapprima menscevico, ma in seguito aveva seguito Lenin e teorizzato la "rivoluzione permanente", l'idea che la rivoluzione non può risolversi in un unico atto e che l’eliminazione di ogni forma di sfruttamento e di mutamento culturale non possono mai essere considerati conclusi). Secondo Trotzkij in Russia, a causa della sua arretratezza, la rivoluzione doveva essere guidata dal proletariato, che avrebbe dovuto saltare la fase democratico-borghese per proseguire subito a quella socialista. Lo zar, già imprigionato in una località di campagna, Ekaterinburg, venne fucilato con tutta la sua famiglia (luglio 1918). Lenin istituì una polizia politica, la Ceka, che perseguitò in modo spietato gli zaristi, la borghesia, gli anarchici e perfino i socialisti che non avevano aderito alla rivoluzione bolscevica.
La guerra civile fu feroce e crudele, tanto che si è parlato di "terrore bianco" e "terrore rosso", e alla fine costò 5 milioni di morti.
Il 1921 segnò la vittoria dell’Armata rossa sui bianchi. Questi ultimi erano dispersi per tutta la Russia, erano divisi al loro interno tra zaristi, democratici e federalisti, e non erano riusciti a conquistarsi il favore dei contadini. Così i generali zaristi si arresero e le truppe straniere vennero ritirate. Anche i governi autonomi che si erano formati in Ucraina, Georgia e Armenia furono sconfitti. Fece eccezione la rinata Polonia, che col trattato di Riga (marzo 1921), acquisì alcuni territori russi che erano sotto il controllo delle armate "bianche", mentre i bolscevichi recuperarono gran parte dell'Ucraina che avevano perso col trattato di Brest Litovsk.
Nacque un nuovo stato: l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS). La nuova costituzione assegnava il potere ai soviet di operai e soldati, tuttavia, pur essendo una nazione formalmente federale, di fatto il potere era concentrato a Mosca. La guida del nuovo stato era interamente nelle mani del partito bolscevico che, mettendo a tacere ogni voce di dissenso compresa quella delle nazionalità e dei sindacati, aveva dato vita a un’autocrazia più possente e spietata di quella dello zar.

La nuova politica economica

Nel gennaio 1921 il nuovo regime dovette affrontare l'ammutinamento di 20 mila marinai di Kronstadt che chiedevano la democrazia. La rivolta fu spietatamente soffocata. Per legare maggiormente a sé i movimenti comunisti degli altri paesi nel 1919 i bolscevichi promossero la fondazione della terza Internazionale.

Problemi enormi attendevano il nuovo governo sovietico che aveva confiscato tutti i mezzi di produzione (terre, industrie, macchinari, miniere) e li aveva dichiarati di proprietà collettiva.
I contadini, subito dopo la rivoluzione, erano stati costretti a consegnare alle autorità, senza avere nulla in cambio, tutte le loro eccedenze (comunismo di guerra). Decisero pertanto di ridurre la produzione. La produzione agricola era quindi calata al 55% rispetto a quella degli anni precedenti la guerra, mentre quella industriale era crollata addirittura al 10% e il commercio estero era pressoché nullo.
Lenin stesso si rese conto che non era possibile creare da un giorno all'altro un’economia comunista. Dando ragione ai menscevichi, che giudicavano la rivoluzione proletaria prematura, trovò quindi una soluzione di compromesso che chiamò Nuova Politica Economica (NEP). La rivoluzione necessitava ancora dell’economia borghese.
I contadini furono autorizzati a mantenere una certa quantità di terre in proprietà privata. Solo le aziende che avevano più di 20 dipendenti divennero collettive. Restarono, quindi, in mano ai privati molte proprietà contadine di dimensioni medio-piccole, gran parte del commercio interno, le piccole aziende familiari.
Nonostante i severi limiti posti alle attività private, la NEP diede subito fiato alla disastrata economia sovietica: negli anni 1923-24 solo il 38,5% della produzione totale era frutto del lavoro del settore statale, mentre tutto il resto proveniva dalle libere attività dei privati.
La percentuale della produzione privata sul totale salì a oltre il 98% nell'agricoltura, grazie soprattutto all'intraprendenza dei Kulàki, i contadini benestanti. Quando però l’economia riprese a funzionare, Stalin, il nuovo segretario del partito bolscevico, decise di passare alla fase di collettivizzazione forzata delle campagne (1928), col fine di trasferire ricchezza dall'agricoltura all'industria: le terre vennero unificate in cooperative agricole chiamate Kolchoz, in cui i contadini lavoravano collettivamente la terra ricevuta dallo stato ma mantenevano piccoli appezzamenti di terreno per uso privato (4000 mq) e qualche capo di bestiame, o in aziende agricole di stato, chiamate Sovchoz, in cui i contadini erano stipendiati dallo stato come gli operai. Paradossalmente gli appezzamenti privati, che erano il 3% del totale, producevano quasi la metà dell'intero prodotto agricolo russo (Della Loggia). La nuova politica, detta dei piani quinquennali, era una forma di economia dirigistica che prevedeva degli obbiettivi prefissati dall’alto da realizzare nei cinque anni successivi. Si trattava in sostanza di favorire un’industrializzazione accelerata a spese dei contadini ridotti nuovamente a "servi della gleba".
I contadini, e soprattutto i kulaki, si opposero fermamente alla collettivizzazione, imboscando le derrate alimentari, macellando il bestiame ed anche utilizzando le armi. Stalin reagì ordinando eliminazioni fisiche e deportazioni di massa nei campi di lavoro, i famigerati gulag. Questi provvedimenti colpirono almeno 3 milioni di  kulaki, che vennero uccisi o deportati nelle zone più remote della Siberia e dell’Asia centrale. In sostanza si trattava della nascita di una nuova forma di bestiale schiavitù utilizzata per operare rapidamente la svolta verso l’industrializzazione. Il sistema dei gulag assunse una decisa accelerazione a partire dal 1929 quando Stalin decise
di avvalersi del lavoro coatto per accelerare l’industrializzazione dell’Unione Sovietica e per estrarre le risorse naturali nell’Estremo Nord del paese, quasi inabitabile. I campi fornivano un terzo dell’oro del paese, buona parte del suo carbone e legname, e molto altro. Nell’insieme di 487 campi di lavoro forzato che operarono tra il 1929 e il 1953 furono internati 18 milioni di persone (Anne Applebaum).
Per arginare il potere della Chiesa ortodossa il regime si impegnò in una estenuante opera di scristianizzazione. I beni ecclesiastici furono confiscati, le chiese furono chiuse e le gerarchie religiose arrestate e spedite nei gulag. Tuttavia la religiosità dei russi non fu sradicata e sopravvisse seppure in spazi molto ristretti. I bolscevichi, secondo la testimonianza del notissimo scrittore dissidente Aleksandr Solzenicyn, infierirono contro la chiesa russa e i preti ortodossi con «tale durezza che, se non il 90 per cento, almeno l’85 per cento di essi sono stati sterminati. Il 90 o 95 per cento delle chiese sono state chiuse» (Ritorno in Russia).

Stalin
Nel 1924, alla morte di Lenin, il potere passò a Stalin, che si sbarazzò con la forza e con l’astuzia di ogni rivale. Iosif  Vissarionovič Džugašvili (soprannominato Stalin = uomo d'acciaio) veniva dalla Georgia. Pur provenendo da una famiglia molto povera, era riuscito a studiare in un seminario di Tiblisi anche se, per una sorta di ribellione che lo indusse al ritiro, non era riuscito a concludere l'intero corso di studi. Negli anni successivi alla morte di Lenin egli affermò con spietata durezza il suo potere personale.
Rivale di Stalin per il potere, ma anche sul piano politico, era stato Trotzkij, l'eroe della difesa contro le armate bianche. Trotzkij, temendo il pericolo dell'accerchiamento degli stati capitalisti, aveva ipotizzato l'esportazione del modello rivoluzionario sovietico. Stalin invece voleva consolidare il socialismo in Russia, poiché non considerava realistica, almeno per il momento, l’ipotesi che la rivoluzione attecchisse altrove. Trotzkij fu costretto a scappare dalla Russia nel 1929, ma Stalin lo fece uccidere da un sicario in Messico nel 1940.
Stalin esercitò un potere assoluto, superiore a quello dei sovrani dell'antichità perché molto più capillare, organizzato ed efficiente nel punire e anche nel prevenire ogni possibile forma di opposizione.
Dopo lo sterminio dei kulaki il regime staliniano si fece ancora più oppressivo. Le persecuzioni cominciarono a colpire non soltanto gli oppositori ma anche gli intellettuali e gli artisti, i cittadini non russi, gli ufficiali dell'Armata Rossa, i vecchi bolscevichi di cui Stalin temeva il prestigio, e persino molti fedeli dirigenti comunisti.
Bastava un semplice sospetto un'accusa di frazionismo (= volontà di dividere il partito) o di deviazionismo (= allontanamento, deviazione della linea politica ufficiale) per essere processati, torturati, costretti a confessare colpe mai commesse, e poi giustiziati o inviati nei campi di lavoro forzato.
La potente e temutissima polizia politica (CEKA) e i funzionari dello Stato Sovietico e del partito comunista, pretesero di regolare ogni aspetto della vita quotidiana dei cittadini. La scuola era ormai del tutto asservita alle esigenze di indottrinamento ideologico dei bolscevichi. Ogni voce fuori dal coro fu zittita. Fu imposto il culto della personalità di Stalin "geniale" erede di Lenin e "padre" del popolo sovietico. Centinaia di migliaia (è difficile calcolarle, perché molte semplicemente scomparvero senza lasciare traccia) furono le vittime del periodo compreso fra il 1934 e il 1939, che fu detto del terrore staliniano o delle grandi purghe. Per fare un esempio, dei 1966 partecipanti al congresso del partito del 1934, 1108 furono condannati a morte negli anni successivi. Tale congresso è infatti ricordato come quello dei fucilati.


L’eco della rivoluzione
In Occidente le notizie provenienti dalla Russia sollevarono grandi sogni e preoccupazioni. I governi e le classi dirigenti ebbero il timore che il contagio rivoluzionario si allargasse. L'invio di truppe occidentali in aiuto dei generali zaristi e delle armate bianche non bastò a fermare la Rivoluzione, ma la guerra creò enormi difficoltà alla nuova dirigenza bolscevica e al nuovo stato comunista. Anche per questo motivo prevalsero le idee di Stalin sul rafforzamento del comunismo all'interno della Russia e sulla rinuncia da esportare la Rivoluzione nel resto del mondo. Fortissime invece furono le speranze che la Rivoluzione fece nascere nelle classi popolari dell'Occidente, soprattutto fra gli operai. La diffusione delle informazioni era allora assai lenta e difficile. La Russia inoltre era un paese vastissimo e lontano, e i suoi mezzi di comunicazione erano ben poco sviluppati. Per lungo tempo tutto ciò che in Occidente si sapeva della Rivoluzione era che il popolo si era ribellato e aveva preso il potere. Anche in seguito, quando notizie più precise cominciarono a circolare, poco o nulla trapelò delle crudeli lotte di potere che avevano luogo al vertice dello Stato Comunista, della tirannia imposta da Stalin al paese e delle persecuzioni che di lì a poco si sarebbero abbattute su chiunque avesse osato opporsi.
In questa situazione molti pensarono alla Russia sovietica come al paradiso dei lavoratori: un paese dove il popolo si era liberato con le proprie mani dall'oppressione e poteva governarsi da sé. Anche se questo, più tardi, si sarebbe rivelato completamente falso, l'idea di "fare come in Russia" divenne per molti, che vi credettero in assoluta buona fede, un ideale traguardo di politica e giustizia sociale.

Bibliografia:
Anthony Wood, La rivoluzione russa, Il Mulino, collana Universale Paperbacks, 1999
Ettore Cinella, 1905 La vera rivoluzione, ebook,  Della Porta editori, 2008
Anne Applebaum, Gulag. Storia dei campi di concentramento sovietici, Collezione Le Scie, Milano, Mondadori, 2004
Aleksandr Solzenicyn, Ritorno in Russia, Marsilio, 2019 
Rupert Colley, The Russian Revolution: History in an Hour, HarperPress (2 agosto 2012)
 



[1] Un altro grave episodio di ribellione accadde nella guarnigione della fortezza di Kronstadt, nel golfo di Finlandia.

[2] Kerensky aveva aderito al partito socialrivoluzionario nel 1905 ed era stato eletto nella Duma nel 1906 col partito trudovikista (dal russo trud, lavoro)

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