[614
a] (....) Er figlio di Armenio, di schiatta panfilia (...)
era morto in guerra e quando dopo dieci giorni si raccolsero i cadaveri già
putrefatti, venne raccolto ancora incorrotto. Portato a casa, nel dodicesimo
giorno stava per essere sepolto. Già era deposto sulla pira quando risuscitò e,
risuscitato, prese a raccontare quello che aveva veduto nell’aldilà. Ed ecco il
suo racconto.
Uscita dal suo corpo, l’anima aveva camminato insieme con molte [c] altre ed erano arrivate a un luogo meraviglioso, dove si aprivano due voragini nella terra, contigue, e di fronte a queste, alte nel cielo, altre due. In mezzo sedevano dei giudici che, dopo il giudizio, invitavano i giusti a prendere la strada di destra che saliva attraverso il cielo, dopo aver loro apposto dinanzi i segni della sentenza; e gli ingiusti invece a prendere la strada di sinistra, in discesa. E anche questi avevano, ma sul dorso, i segni di tutte le [d] loro azioni passate. Quando si era avanzato lui, gli avevano detto che avrebbe dovuto descrivere agli uomini il mondo dell’aldilà, e che lo esortavano ad ascoltare e contemplare tutto quello che c’era in quel luogo. E lí vedeva le anime che, dopo avere sostenuto il giudizio, se ne andavano per una delle due voragini, sia del cielo sia della terra; attraverso le altre due passavano altre anime: dall’una, sozze e polverose, quelle che risalivano dalla terra; dall’altra, monde, altre che scendevano dal cielo. E [e] quelle che via via arrivavano sembravano venire come da un lungo cammino. Liete raggiungevano il prato per accamparvisi come in festiva adunanza. E tutte quelle che si conoscevano si scambiavano affettuosi saluti: quelle che provenivano dalla terra chiedevano alle altre notizie del mondo celeste, quelle che provenivano dal cielo notizie del mondo sotterraneo. Si scambiavano i racconti, le prime [615 a] gemendo e piangendo perché ricordavano tutti i vari patimenti e spettacoli che avevano avuti nel loro cammino sotterraneo (un cammino millenario), mentre le seconde narravano i godimenti celesti e le visioni di straordinaria bellezza. Molto tempo, Glaucone, occorrerebbe per i molti particolari, ma la sostanza del suo racconto era questa: per tutte le ingiustizie commesse e per tutte le persone offese da ciascuno, avevano pagato la pena un caso dopo l’altro, e per ciascun caso dieci volte tanto (questo avveniva ogni [b] cento anni, perché tale è la durata della vita umana). Ciò perché il castigo subíto fosse il decuplo della colpa: perché ad esempio, i responsabili della morte di molte persone per aver tradito città o eserciti, e coloro che molte ne avessero ridotte in schiavitú o fossero stati complici di altri misfatti, per ciascuno di tutti questi delitti riportassero sofferenze decuple; e, viceversa, perché coloro che avessero fatto dei benefíci e fossero stati giusti e pii, fossero premiati nella [c] medesima proporzione. Altro diceva dei morti súbito dopo la nascita e dei vissuti breve tempo, ma sono cose che non merita ricordare. Ancora maggiori, secondo il suo racconto, erano le mercedi per l’empietà e la pietà verso gli dèi e i genitori e per l’omicidio. Asseriva infatti di essersi appunto trovato accanto a uno cui un altro chiedeva dove fosse il grande Ardieo. Questo Ardieo era stato tiranno in una città della Panfilia, mille anni prima, e, come si [d] diceva, aveva ucciso il vecchio padre e il fratello maggiore, e si era macchiato di molte altre nefandezze. L’interrogato, riferiva Er, aveva risposto: “Non viene né potrebbe venir qui”.
Uscita dal suo corpo, l’anima aveva camminato insieme con molte [c] altre ed erano arrivate a un luogo meraviglioso, dove si aprivano due voragini nella terra, contigue, e di fronte a queste, alte nel cielo, altre due. In mezzo sedevano dei giudici che, dopo il giudizio, invitavano i giusti a prendere la strada di destra che saliva attraverso il cielo, dopo aver loro apposto dinanzi i segni della sentenza; e gli ingiusti invece a prendere la strada di sinistra, in discesa. E anche questi avevano, ma sul dorso, i segni di tutte le [d] loro azioni passate. Quando si era avanzato lui, gli avevano detto che avrebbe dovuto descrivere agli uomini il mondo dell’aldilà, e che lo esortavano ad ascoltare e contemplare tutto quello che c’era in quel luogo. E lí vedeva le anime che, dopo avere sostenuto il giudizio, se ne andavano per una delle due voragini, sia del cielo sia della terra; attraverso le altre due passavano altre anime: dall’una, sozze e polverose, quelle che risalivano dalla terra; dall’altra, monde, altre che scendevano dal cielo. E [e] quelle che via via arrivavano sembravano venire come da un lungo cammino. Liete raggiungevano il prato per accamparvisi come in festiva adunanza. E tutte quelle che si conoscevano si scambiavano affettuosi saluti: quelle che provenivano dalla terra chiedevano alle altre notizie del mondo celeste, quelle che provenivano dal cielo notizie del mondo sotterraneo. Si scambiavano i racconti, le prime [615 a] gemendo e piangendo perché ricordavano tutti i vari patimenti e spettacoli che avevano avuti nel loro cammino sotterraneo (un cammino millenario), mentre le seconde narravano i godimenti celesti e le visioni di straordinaria bellezza. Molto tempo, Glaucone, occorrerebbe per i molti particolari, ma la sostanza del suo racconto era questa: per tutte le ingiustizie commesse e per tutte le persone offese da ciascuno, avevano pagato la pena un caso dopo l’altro, e per ciascun caso dieci volte tanto (questo avveniva ogni [b] cento anni, perché tale è la durata della vita umana). Ciò perché il castigo subíto fosse il decuplo della colpa: perché ad esempio, i responsabili della morte di molte persone per aver tradito città o eserciti, e coloro che molte ne avessero ridotte in schiavitú o fossero stati complici di altri misfatti, per ciascuno di tutti questi delitti riportassero sofferenze decuple; e, viceversa, perché coloro che avessero fatto dei benefíci e fossero stati giusti e pii, fossero premiati nella [c] medesima proporzione. Altro diceva dei morti súbito dopo la nascita e dei vissuti breve tempo, ma sono cose che non merita ricordare. Ancora maggiori, secondo il suo racconto, erano le mercedi per l’empietà e la pietà verso gli dèi e i genitori e per l’omicidio. Asseriva infatti di essersi appunto trovato accanto a uno cui un altro chiedeva dove fosse il grande Ardieo. Questo Ardieo era stato tiranno in una città della Panfilia, mille anni prima, e, come si [d] diceva, aveva ucciso il vecchio padre e il fratello maggiore, e si era macchiato di molte altre nefandezze. L’interrogato, riferiva Er, aveva risposto: “Non viene né potrebbe venir qui”.
2 “Infatti
tra gli altri orrendi spettacoli abbiamo veduto anche questo. Come fummo presso
lo sbocco, lí lí per risalire e trovandoci ad aver subíto tutte le altre prove,
d’improvviso scorgemmo lui e altri, per lo piú tiranni, ma c’era anche gente
privata, colpevole di gravi peccati. Essi [e] credevano ormai che
sarebbero risaliti, ma lo sbocco non li riceveva, anzi emetteva un muggito ogni
volta che uno di questi scellerati inguaribili o uno che non avesse ancora
espiato nella misura dovuta tentava di salire”. Lí presso, raccontava, c’erano
uomini feroci, tutti fuoco a vedersi, che sentendo quel boato afferravano gli
uni a mezzo il corpo e li trascinavano via, ma ad Ardieo e ad altri avevano
[616 a] legato mani, piedi e testa, li avevano gettati a terra e scorticati,
e li trascinavano lungo la strada, dalla parte esterna, straziandoli su piante
di aspalato. E a coloro che via via sopraggiungevano, spiegavano quali erano le
ragioni di tutto questo aggiungendo che li conducevano via per gettarli nel
Tartaro. Laggiú, continuava, avevano provato molti terrori di ogni genere, ma
tutti li superava la paura che ciascuno aveva di sentire quel boato al momento
di salire. E ciascuno era stato molto contento di venir su senza sentirlo.
Queste erano all’incirca le pene e i castighi [b] e le corrispondenti
ricompense. Quando i singoli gruppi che si trovavano nel prato vi avevano
trascorso sette giorni, nell’ottavo dovevano levarsi di lí e mettersi in
cammino, per giungere nel quarto giorno in un luogo donde potevano scorgere,
tesa dall’alto attraverso tutto il cielo e la terra, una luce diritta come una
colonna, molto simile all’arcobaleno, ma piú intensa e piú pura. Vi erano
arrivati dopo un giorno di marcia e colà avevano veduto, [c] in mezzo
alla luce, tese dal cielo, le estremità dei suoi legami. Era questa luce a
tenere avvinto il cielo e, come le gomene esterne delle triremi, a tenere
insieme tutta la circonferenza. Alle estremità era sospeso il fuso di Ananke [la personificazione del Destino
immutabile], per il
quale giravano tutte le sfere. (....) Altre tre donne sedevano in cerchio a [c]
eguali distanze, ciascuna su un trono: erano le sorelle di Ananke, le Moire, in
abiti bianchi e con serti sul capo, Lachesi Cloto Atropo. E cantavano in
armonia con le Sirene: Lachesi il passato, Cloto il presente, Atropo il futuro.
Cloto a intervalli toccava con la destra il fuso e ne accompagnava il giro
esterno, cosí come faceva Atropo con la sinistra per [d] i giri interni;
e Lachesi con l’una e con l’altra mano toccava ora i giri interni ora quello
esterno.Al loro arrivo, le anime dovevano presentarsi a Lachesi. E un araldo
divino prima le aveva disposte in fila, poi aveva preso dalle ginocchia di Lachesi
le sorti e vari tipi di vita, era salito su un podio elevato e aveva detto:
“Parole della vergine Lachesi sorella di Ananke. Anime dall’effimera esistenza
corporea, incomincia per voi un altro periodo di generazione mortale, preludio
a nuova [e] morte. Non sarà un dèmone a scegliere voi, ma sarete voi a
scegliervi il dèmone. Il primo che la sorte designi scelga per primo la vita
cui sarà poi irrevocabilmente legato. La virtú non ha padrone; secondo che la
onori o a spregi, ciascuno ne avrà piú o meno. La responsabilità è di chi
sceglie, il dio non è responsabile”. Con ciò aveva scagliato al di sopra di
tutti i convenuti le sorti e ciascuno raccoglieva quella che gli era caduta
vicino, salvo Er, cui non era permesso di farlo. Chi l’aveva raccolta vedeva
chiaramente il numero da lui sorteggiato. [618 a] Subito dopo (l’araldo) aveva deposto per terra davanti a loro i vari tipi di vita, in
numero molto maggiore dei presenti. Ce n’erano di ogni genere: vite di
qualunque animale e anche ogni forma di vita umana. C’erano tra esse tirannidi,
quali durature, quali interrotte a metà e concludentisi in povertà, esilio e
miseria. C’erano pure vite di uomini celebri o per l’aspetto esteriore, per la
bellezza, per il [b] vigore fisico in genere e per l’attività agonistica,
o per la nascita e le virtú di antenati; e vite di gente oscura da questi punti
di vista, e cosí pure vite di donne. Non c’era però una gerarchia di anime,
perché l’anima diventava necessariamente diversa a seconda della vita che
sceglieva. Il resto era tutto mescolato insieme: ricchezza e povertà o malattie
e salute; e c’era anche una forma intermedia tra questi estremi. (.....)
3 In
quel momento, dunque, secondo quanto narrava il nunzio che veniva di là,
l’araldo divino aveva parlato cosí: “Anche chi si presenta ultimo, purché
scelga con senno e viva con regola, può disporre di una vita amabile, non
cattiva. Il primo cerchi di scegliere con cura e l’ultimo non si scoraggi”. A
queste parole, raccontava Er, colui che aveva avuto la prima sorte si era
subito avanzato e aveva scelto la maggiore tirannide. A questa scelta era stato
spinto dall’insensatezza e dall’ingordigia, senza averne [c] abbastanza
valutato tutte le conseguenze. E cosí non s’era accorto che il fato racchiuso
in quella scelta gli riservava la sorte di divorarsi i figli, e altri mali.
Quando l’aveva esaminata a suo agio, si percoteva e si lamentava della scelta,
senza tenere presenti le avvertenze dell’araldo divino. Non già incolpava se
stesso dei mali, ma la sorte e i dèmoni, tutto insomma eccetto sé. Egli
apparteneva al gruppo che veniva dal cielo e nella vita precedente era vissuto
in un [d]8 regime ben ordinato, ma aveva acquistato virtú per abitudine,
senza filosofia. E per quanto se ne poteva dire, tra coloro che si lasciavano
sorprendere in simili imprudenze non erano i meno quelli che venivano dal
cielo: perché erano inesperti di sofferenze. Invece coloro che venivano dalla
terra, per lo piú non operavano le loro scelte a precipizio: perché avevano
essi stessi sofferto o veduto altri soffrire. Anche per questo, oltre che per
la fortuna nel sorteggio, la maggior parte delle anime permutava mali con beni
e beni con mali. Perché se uno, quando arriva a questa nostra vita, pratica
sempre sana filosofia, e se nel momento [e] della scelta la sorte non
gli cade tra le ultime, ha buone probabilità, secondo le notizie di lí riferite,
non solo di essere felice in questo mondo, ma anche di compiere il viaggio da
qui a lí e da lí a qui non per una strada sotterranea e aspra, ma liscia e
celeste. Meritava poi vedere, diceva, come le singole anime sceglievano le loro
vite. [620 a] Spettacolo insieme miserevole, ridicolo e meraviglioso! La
maggioranza sceglieva secondo le abitudini contratte nella vita precedente.
Diceva d’avere veduto l’anima che era stata un tempo di Orfeo intenta a
scegliere la vita di un cigno: non voleva nascere da grembo di donna per l’odio
che nutriva verso il sesso femminile che aveva cagionato la sua morte [disperato per non essere riuscito a
riportare dall’Ade alla vita terrena la sposa Euridice, orfeo vagava per le
montagne della Tracia sfogando il suo dolore, quando, imbattutosi in uno stuolo
di Baccanti, ne venne selvaggiamente dilaniato]; e l’anima di Tamiri [fu il primo dei cantori di corte; narrava la leggenda
che, insuperbitosi per la propria bravura, volle gareggiare con le Muse e ne fu
accecato per punizione]
scegliere la vita di un usignolo. Aveva visto anche un cigno che con la sua
scelta mutava la propria vita in quella umana, e cosí pure [b] altri
animali canori. L’anima che era stata designata ventesima dalla sorte aveva
scelto la vita di un leone: era quella di Aiace Telamonio, che rifuggiva dal
diventare uomo ricordandosi del giudizio relativo alle armi [si tratta della contesa per le armi
di Achille aggiudicate a Odisseo anziché ad Aiace che se ne riteneva piú
meritevole; di qui la ragione del corruccio dell’ombra di Aiace quando Odisseo
scende nell’Ade (Odissea, XI, 543-565)]. Dopo di lui veniva quella di Agamennone: anche questa,
per ostilità verso il genere umano dovuta alle sofferenze patite, aveva
scambiato la sua vita con quella di un’aquila. Posta dalla sorte nel gruppo di
mezzo, l’anima di Atalanta, come aveva scorto grandi onori riservati a un
atleta, non era stata capace di passare oltre e li aveva [c] raccolti [Atalanta, celebre per la velocità
nella corsa, fu vinta tuttavia da Ippomene che durante la gara le gettò
magnifiche mele che ella si fermò a raccogliere]. Dopo di lei, aveva visto l’anima di Epeo, figlio di
Panopeo [Epeo fu un
pugile che partecipò alla guerra di Troia; Omero ne ricorda l’incontro
avventuroso con Eurialo (Iliade, XXIII, 664-700) e la costruzione del
famoso cavallo di legno sotto la guida di Atena (Odissea, VIII, 492 e
segg.; XI, 523)],
assumere la natura di una donna operaia; lontano, tra gli ultimi, quella del
buffone Tersite penetrare in una scimmia [Tersite è il popolano guercio, zoppo e gobbo che vomita
ingiurie contro i comandanti greci e propone la ritirata da Troia dell’esercito
acheo, finché Odisseo non lo riduce al silenzio bastonandolo con lo scettro (Iliade,
II, 212-277)]. S’era
avanzata poi a scegliere l’anima di Odísseo, cui il caso aveva riservato
l’ultima sorte: ridotta senza ambizioni dal ricordo dei precedenti travagli, se
n’era andata a lungo in giro cercando la vita di un privato individuo schivo di
ogni seccatura. E non senza pena l’aveva [d] trovata, gettata in un
canto e negletta dalle altre anime; e al vederla aveva detto che si sarebbe
comportata nel medesimo modo anche se la sorte l’avesse designata per prima; e
se l’era presa tutta contenta. E nello stesso modo passavano dalle altre bestie
in uomini e dalle une nelle altre: le ingiuste si trasformavano in quelle
selvagge, le giuste in quelle mansuete. Si facevano mescolanze di ogni genere.
Dopoché tutte le anime avevano scelto le rispettive vite, si presentavano a
Lachesi nell’ordine stabilito dalla sorte. A ciascuno ella dava come compagno
il dèmone che quegli s’era preso, perché gli fosse guardiano durante la [e]
vita e adempisse il destino da lui scelto. Ed esso guidava l’anima anzitutto da
Cloto, a confermare, sotto la sua mano e sotto il giro del fuso, il destino che
s’era scelta dopo il sorteggio. Poi toccava questo e quindi la conduceva alla
trama tessuta da Atropo rendendo inalterabile il destino una volta filato. Di
lí senza volgersi <ciascuno> si recava sotto [621 a] il trono di
Ananke e gli passava dall’altra parte. Dopoché anche gli altri erano passati,
tutti si dirigevano verso la pianura del Lete in una tremenda calura e afa. Era
una pianura priva d’alberi e di qualunque prodotto della terra. Al calare della
sera, essi si accampavano sulla sponda del fiume Amelete, la cui acqua non può
essere contenuta da vaso alcuno. E tutti erano obbligati a berne una certa
misura, ma chi non era frenato dall’intelligenza ne beveva [b] di piú
della misura. Via via che uno beveva, si scordava di tutto.
(Platone, Opere, vol. II, Laterza,
Bari, 1967, pagg. 447-455)
Commenti
Posta un commento