La Destra Storica (al pari peraltro di quanto accadrà con la
Sinistra) aveva sempre poggiato su basi fragili il proprio potere: non essendo
un vero e proprio partito, divisa al suo interno da personalismi e fazioni
regionali, si era sempre mantenuta al potere tramite l’allargamento della
maggioranza alle parti più moderate della Sinistra.
Nel 1876 i nodi vennero al pettine: il governo Minghetti fu
messo in minoranza su un progetto di statalizzazione delle ferrovie. La guida
passò al rappresentante della vecchia Sinistra piemontese, Agostino Depretis, che alle
elezioni dello stesso anno vide la conferma con la conquista di una larga
maggioranza: il Paese si era infatti ormai scollato da una Destra che aveva
ottenuto indubbi risultati, ma a patto di forti sacrifici e lasciando molte
questioni irrisolte.
Depretis, fatta eccezione per la parentesi 1878-1881, guidò
il governo dal 1876 al 1887, anno della sua morte.
Il programma della Sinistra
L'epoca della sinistra storica va dal 1876, anno della
"rivoluzione parlamentare" che portò alla caduta della Destra
storica, sino alla "crisi di fine secolo" (1896), che sfociò nell'età
giolittiana.
I punti qualificanti con cui la Sinistra si presentava
erano: l’allargamento del suffragio elettorale, la riforma dell’istruzione
elementare, sgravi fiscali nelle imposte indirette, il decentramento
amministrativo. Tranne l’ultimo punto, su tutti gli altri vennero
effettivamente attuate delle riforme.
Nel 1877 la legge Coppino ampliava i termini della legge
Casati riguardo l’istruzione, rendeva obbligatoria la frequenza alla scuola elementare per i bambini dai sei ai nove anni (aumentando così l'obbligo di un anno) e
sanzionando i genitori inadempienti. Le problematicità rimasero però ampie,
perché i comuni solo in minima parte poterono mettere in piedi risorse
adeguate.
Nel 1882 veniva promulgata la legge che
prevedeva l’estensione del suffragio grazie all’abbassamento dell’età minima e del censo necessari ad accedere al diritto di voto: gli elettori passarono così dal 2% al 7%. Benché ancora
ristretto, l’allargamento del suffragio portò al voto i rappresentanti della
borghesia urbana e di operai e artigiani del Nord: fra i risultati vi fu
l’elezione del primo deputato socialista, Andrea Costa.
Per quanto riguarda infine la politica fiscale, nel 1884 fu
definitivamente abolita la famigerata tassa sul macinato.
Il trasformismo
Con Depretis si affermò la cosiddetta pratica del
trasformismo, consistente nel cooptare esponenti dell'opposizione nella maggioranza, attraverso promesse e favori, al fine di raggiungere o consolidare la maggioranza
parlamentare,
superando le tradizionali distinzioni tra destra e sinistra. Di tipo
trasformistico fu considerata anche la concessione di favori alle consorterie
locali, praticata da F. Crispi e G.
Giolitti, in cambio del sostegno parlamentare.
La Sinistra e l’economia
L’abolizione della tassa sul macinato, unita ad un aumento
della spesa pubblica dovuto ad un incremento delle spese militari e a un
sostegno maggiore all’industrializzazione, provocò il ritorno della crescita
del deficit nel bilancio statale.
Al contempo si facevano sentire fortemente gli effetti della
crisi agraria, un fenomeno più vasto ma che colpiva duramente un paese in cui
il sistema agrario era ancora fortemente arretrato, così come testimoniato
dall’inchiesta del 1877 di Jacini. La crisi si fece sentire in primo luogo sul
settore dei cereali: fra gli effetti vi fu l’aumento di un’emigrazione che
acquistava dimensioni di massa.
La crisi agraria ebbe come effetto paradossale quello di far
comprendere la necessità di un decollo industriale. Per quanto gli uomini della
Sinistra fossero formati sui principi liberisti, incominciarono, in sintonia con
quanto succedeva in Europa, ad incrementare l’intervento statale: nel 1878
vennero alzati alcuni dazi doganali, nel 1887 l’incremento fu molto più
cospicuo (i settori più protetti furono la siderurgia, il laniero, il
cotoniero, lo zuccheriero, il cerealicolo) ed ebbe come effetto quello della
creazione dell’alleanza fra gli industriali del Nord e gli agrari del Sud.
Altro effetto, negativo, di questo incremento fu l’inizio di una “guerra
doganale” con la Francia che, unita a tensioni coloniali, favorì un
allontanamento dell’Italia dal paese d’Oltralpe e un ulteriore avvicinamento al
blocco Germania-Austria.
Accanto al protezionismo, una nuova forma di interventismo
che si profilava era quello dell’intervento diretto nel comparto produttivo:
allo scopo di avviare una produzione di acciaio in Italia, nel 1884 lo Stato
favorì l’impianto di un nuovo complesso siderurgico, le Acciaierie di Terni. La
sua costruzione avvenne col concorso finanziario dello Stato e delle banche,
iniziando peraltro a delineare anche l’intreccio industria-Stato-banche.
I due interventi favorirono l’ascesa dei settori già citati,
ma indebolirono l’industria meccanica, scarsamente protetta e che soffriva gli
alti costi della produzione siderurgica. Nel tessile crebbero il
laniero e il cotoniero, ma declinò la seta. In agricoltura vi fu una
ripresa dei prezzi dei cereali che rialzò le sorti del settore ma colpì
duramente le fasce più povere della popolazione; al contempo la guerra doganale
con la Francia inferse un duro colpo all'esportazione delle colture specializzate del meridione.
La Sinistra: la politica estera
In rottura con l’eredità risorgimentale, nel 1882 l’Italia
firmò la cosiddetta Triplice Alleanza con Germania e Austria. Lo scopo era
quello di uscire dall’isolamento internazionale legandosi al dinamismo tedesco.
Negli ultimi anni l’Italia aveva infatti dovuto “soffrire” l’espansione
austriaca nei Balcani e il riconoscimento del dominio francese sulla Tunisia.
Con la Triplice in realtà ben pochi erano i vantaggi che
venivano all’Italia: il patto prevedeva il reciproco aiuto in caso di attacco
della Francia (il che era molto più probabile che accadesse nei confronti della
Germania che dell’Italia) ma comportava la rinuncia alle rivendicazioni
italiane su Trentino e Venezia Giulia. Il trattato fu migliorato nel 1887 con
due nuove clausole: la prima prevedeva compensi per l’Italia in caso di
espansione austriaca nei Balcani; la seconda che la Germania avrebbe sostenuto
militarmente l’Italia in caso di scontro con la Francia per il Marocco e la
Tripolitania.
Nel frattempo erano state gettate fragili basi per
un’ipotetica espansione coloniale, con l’acquisto nel 1882 della baia di Assab
nell'Africa orientale e poi con l’occupazione della striscia di territorio che andava da Assab a
Massua. Ben pochi i vantaggi che potevano derivare da questa scelta all’Italia:
a muoverla fu infatti la sola facilità dell’acquisto e la consapevolezza di non
“infastidire” altre potenze coloniali.
La fragilità del colonialismo italiano venne una prima volta
alla luce già nel 1887, quando si cercò di allargare ulteriormente
l’occupazione verso l’interno. Questo tentativo suscitò l’ostilità del negus
etiopico e nel gennaio una colonna di cinquecento militari italiani fu
intercettata dagli abissini e sterminata nei pressi di Dogali.
Più tardi, il 2 maggio 1889, tra Etiopia e Italia fu firmato un patto di amicizia e commercio (trattato di Uccialli). Composto di 20 articoli, fu redatto in lingua italiana e amarica. L’articolo 17 della versione italiana configurava un protettorato italiano sull’Etiopia, poiché impediva a quest’ultima la stipula di trattati con altri stati senza il consenso italiano. Nel testo amarico però il ricorso all’intermediazione di Roma era considerato solo come possibilità. L’imperatore etiope Menelik protestò (1890) e quindi denunciò il trattato (1893).
Più tardi, il 2 maggio 1889, tra Etiopia e Italia fu firmato un patto di amicizia e commercio (trattato di Uccialli). Composto di 20 articoli, fu redatto in lingua italiana e amarica. L’articolo 17 della versione italiana configurava un protettorato italiano sull’Etiopia, poiché impediva a quest’ultima la stipula di trattati con altri stati senza il consenso italiano. Nel testo amarico però il ricorso all’intermediazione di Roma era considerato solo come possibilità. L’imperatore etiope Menelik protestò (1890) e quindi denunciò il trattato (1893).
Battaglia di Dogali, Michele Cammarano |
Da Depretis a Crispi
Nel 1887 moriva Depretis. A succedergli fu Crispi, ultimo
ministro degli Interni e primo siciliano a diventare presidente del consiglio.
Ex mazziniano e garibaldino aveva da tempo accantonato le sue pregiudiziali
repubblicane e si era attirato le simpatie dei conservatori per i suoi metodi autoritari che lo avrebbero portato ad avocare a sé anche i ministeri
dell’Interno e degli Esteri.
Da una parte con Depretis furono attuate ulteriori riforme
che alimentavano la democratizzazione del paese, dall’ampia estensione del
suffragio alle elezioni amministrative (ai maschi che sapessero leggere o
scrivere o che pagassero almeno cinque lire di imposte) e dall’elezione dei
sindaci nei comuni con più di diecimila abitanti, al nuovo codice penale, voluto dal ministro Giuseppe Zanardelli, che
aboliva la pena di morte e legalizzava un limitato diritto di sciopero (1889).
Accanto a queste riforme vi erano però nuove spinte
repressive, come la nuova legge di pubblica sicurezza (1889) che lasciava ampi
poteri discrezionali alla polizia e poneva ampi limiti alla libertà sindacale.
Duro oppositore delle politiche trasformistiche, anche
Crispi si rifece poi a queste nella pratica di governo, anche perché la sua
politica gli inimicò i gruppi della sinistra democratica.
Grande estimatore di Bismarck, in un clima ideologico di forte
nazionalizzazione, Crispi si imbarcò fortemente in una velleitaria politica di
potenza. Fautore dell’alleanza con i tedeschi, fu lui a rafforzare la
Triplice Alleanza, a dare vita alla guerra doganale con la Francia e a gettare
le basi per una politica coloniale che si sarebbe poi rivelata disastrosa. Le
basi per questa politica furono gettate già nel 1887 con l’ampliamento del
corpo di spedizione a Massaua e poi nel 1890 a organizzare i pochi possedimenti
italiani nella Colonia Eritrea, ponendo al contempo le basi per l’espansione in
Somalia (dove gli insediamenti portarono prima al protettorato della zona e poi
solo più avanti, nel 1908, alla sua istituzione come colonia).
La prima caduta di Crispi e il primo governo Giolitti
La sua politica coloniale, con i costi che comportava e resi
ancora più eccessivi dalla scarsità di risultati, portò Crispi a essere messo
in minoranza alla Camera nel 1891.
A succedergli fu inizialmente il conservatore di Rudinì,
oppositore della politica coloniale. Dopo poco tempo la palla passò a Giolitti.
Fautore di una politica estremamente liberale, soprattutto per quanto
concerneva gli scontri fra padronato e lavoratori, pagò in un primo tempo
questa sua liberalità. Fra il 1892 e il 1893 si andava infatti formando in Sicilia
un vasto movimento di protesta che avrebbe dato vita ad una fitta rete di
associazioni popolari, conosciute come Fasci dei lavoratori. Non si trattava di
un movimento socialista, ma molto più spontaneo, legato alle difficoltà in cui
versavano le classi popolari siciliane. Giolitti non oppose resistenze a questo
movimento, inimicandosi sia la classe dirigente siciliana che, più in generale,
i conservatori.
A far cadere Giolitti sarebbe stato però il venire alla luce dello scandalo della Banca Romana. Lo scandalo, noto da alcuni anni, era stato messo a tacere dai molti parlamentari
in esso coinvolti. La Banca Romana, al pari di altre, aveva impegnato forti
somme nella speculazione edilizia che negli ultimi anni aveva coinvolto la
capitale, esponendosi più delle proprie possibilità e finendo per stampare
carta moneta falsa e senza alcun valore. Il coinvolgimento dei parlamentari
stava nel fatto che molti di essi avevano attinto per le proprie spese
personali a questa come ad altre banche. Accusato di aver coperto tali
irregolarità Giolitti fu costretti a dimettersi alla fine del 1893.
Dal ritorno di Crispi alla sconfitta di Adua
A tessere la ragnatela che aveva portato alle dimissioni di
Giolitti era stato in primo luogo Crispi, il quale ne approfittò per tornare al
potere, benché più coinvolto del suo predecessore nello scandalo. Crispi
sventolò il pericolo socialista e si presentò come l’uomo forte in grado di
porre fine a queste forze e salvaguardare le istituzioni italiane.
In realtà tale pericolo era stato ingigantito. Le proteste che si
erano sviluppate (non solo in Sicilia) avevano un carattere eminentemente economico,
senza alcun intento rivoluzionario. Benché i socialisti in parte partecipassero
a questo movimento non ne erano né i leader né i protagonisti. Ciò nonostante,
sventolando il pericolo rosso, Crispi pose la Sicilia e la Lunigiana sotto lo
stato d’assedio e, in seguito a un attentato fallito in cui scampò alla morte per un soffio, varò una serie di leggi antianarchiche, con cui si
limitava la libertà di stampa, riunione e associazione. Egli stava iniziando una politica di indirizzo apertamente antiparlamentare, quasi dittatoriale.
L’unico vero effetto fu quello di rinsaldare le fila socialiste
e accrescerne i consensi. Al contempo la durezza della politica di Crispi fece
sì che le opposizioni di sinistra, socialisti, radicali e repubblicani, si
strinsero in fronte unitario, superando le tradizionali divisioni. Alle
elezioni del 1895 i socialisti conquistarono 12 seggi.
A far cadere Crispi, estromettendolo definitivamente dalla
scena, sarebbe stata però la sua politica coloniale. La sua aggressività lo
portò ad a rivendicare l’Etiopia, avendo gli etiopi disconosciuto il trattato
di Ucciali del 1889. Crispi riprese così la penetrazione in Eritrea,
non accompagnandola però da un dovuto sostegno militare. Il risultato fu che
alla fine del 1895 un distaccamento italiano fu isolato e distrutto nuovamente
dagli abissini (battaglia dell'Amba Alagi): mossi da un desiderio di vendetta, ma con una scarsa preparazione tattica, i generali italiani ripresero la marcia: il
primo marzo 1896 un esercito composto da sedicimila uomini fu accerchiato nella
conca di Adua e distrutto.
Crispi fu costretto a dimettersi. Di Rudinì, tornato al
governo concluse immediatamente una pace con l’Etiopia che gli permise di
mantenere la presenza in Eritrea e Somalia.
La crisi di fine secolo
Il governo di Antonio di Rudinì, sostenuto da un'ampia
coalizione di forze politiche, avrebbe dovuto liquidare l’autoritarismo
crispino. Tuttavia, i conservatori continuavano a essere in allarme per il
venir meno del principio di ordine, ovvero per la sempre più manifesta
opposizione di gran parte della popolazione. Si generò così in una parte del ceto
liberale una tendenza reazionaria di fronte a un paese in cambiamento, dove si
stavano affacciando sulla scena politica cattolici e socialisti. In un articolo del 1º gennaio 1897 intitolato “Torniamo allo Statuto”, Sydney Sonnino proponeva
sostanzialmente la liquidazione del regime parlamentare mentre Milano, nel maggio '98, divenne l'epicentro di una diffusa protesta contro il carovita: il generale Bava Beccaris
diresse le artiglierie contro la folla uccidendo 80 persone (fonti non
ufficiali dicono 300). Turati, Bissolati, il cattolico Don Albertario ed altri esponenti politici furono
arrestati. Di Rudinì si dimise in seguito per dissensi politici. Lo sostituì il
generale Luigi Pelloux (giu. 1898-giu. 1900) che, nel 1899, presentò progetti di
legge reazionari che limitavano le libertà garantite dallo Statuto. Le opposizioni riuscirono, anche col ricorso all'ostruzionismo, a impedire il varo delle leggi liberticide di Pelloux. Alle elezioni del giugno 1900, socialisti,
radicali e repubblicani conquistarono 95 seggi. Pelloux si dimise, Umberto I
affidò l'incarico all'anziano senatore Giuseppe Saracco. Il 29 luglio 1901 il re fu ucciso a Monza
dall'anarchico Gaetano Bresci. Gli successe Vittorio Emanuele III (1901-1947),
che diede l’incarico di governo al giolittiano Zanardelli.
Alla morte di Zanardelli (1903), l’incarico passò a Giovanni
Giolitti, l’uomo che avrebbe dominato la vita politica italiana fino al 1914.
Fine conoscitore della macchina burocratica-amministrativa, Giolitti fu il più
serio assertore di un progetto di sviluppo progressista dell'Italia, allargando
la partecipazione alle istituzioni dello stato e promuovendo il passaggio dal
liberalismo elitario alla democrazia. Convinto che il movimento socialista non
fosse eversivo, egli guardò ai riformisti di Filippo Turati nel tentativo
d'integrarli nella maggioranza governativa. Lo stato diventava mediatore
neutrale nei conflitti sindacali.
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