«Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro
di me»
(Epitaffio sulla tomba di Immanuel Kant)
Nella Critica
della ragion pratica (1788) Immanuel Kant conduce l'analisi (critica) della
ragione quando è indirizzata alla pratica (all'azione, al comportamento).
L’opera risponde fondamentalmente alla domanda: “Cosa possiamo fare?”
Questo lavoro fu
preceduto dalla Fondazione della metafisica dei costumi (1785) e
seguito dalla Metafisica dei costumi (1797). È in questi tre scritti che
Kant espone la sua concezione della morale.
Kant ha
cercato di trovare norme morali valide per tutti e per sempre. Secondo lui la
ragione non serve solo a dirigere la conoscenza, ma anche l’azione. Accanto
alla ragione teoretica abbiamo quindi una ragione pratica.
La ragione pura pratica e i compiti della seconda Critica
Kant distingue una ragion pura pratica (che
opera indipendentemente dall’esperienza e dalla sensibilità) da una ragione
empirica pratica (che opera in sulla base dall’esperienza e della
sensibilità). Lo scopo della “Critica della Ragion Pratica” non è
quello di criticare la “ragion pura pratica”, che opera legittimamente a
priori, ma la “ragione empirica pratica” che pretende di restare sempre legata
solo all’esperienza, considerandola l’unico movente delle azioni. Se la
moralità fosse un evento puramente fenomenico le nostre azioni sarebbero,
infatti, sempre determinate come tutti gli eventi naturali; in tal modo non ci
sarebbe libertà, né merito. Avviene qui, dunque, il contrario di ciò che era
avvenuto nella Critica della ragion pura, dove la critica era diretta alla
pretesa della ragione di travalicare l’esperienza; ora si critica la pretesa di
quella ragione che intende legarsi soltanto all’esperienza.
Il fatto che la “ragion pura pratica” non debba
essere criticata ma semplicemente illustrata, non significa che sia priva di
limiti. La ragione morale è pur sempre quella di un essere finito e
condizionato dalla natura sensibile dell’umanità. Bisogna, quindi,
salvaguardare la morale dal fanatismo (la pretesa illusoria di agire in totale
accordo con la ragion pura pratica) e chiarire che, proprio a causa della
natura sensibile dell’umanità, la morale deve assumere la forma del “dovere”.
La legge morale come imperativo categorico
Kant cerca di mostrare che la ragione è sufficiente da
sola (come pura ragione, prescindendo dagli impulsi sensibili) a muovere la
volontà.
Qualcosa del genere era già stato affermato nella filosofia Cristiana con San Gerolamo (IV-V secolo) e San Tommaso (XIII secolo) che avevano parlato di sinderesi, una «scintilla conscientiae» (luce della coscienza), facoltà che permetterebbe all'uomo di avere autocoscienza e conoscenza innata del bene e del male.
Per Kant solo la ragione può produrre principi morali valevoli per tutti gli uomini, dato che le morali fondate su autorità esterne all'uomo (ad esempio il pensiero tradizionale, la Chiesa, il comunismo, il femminismo, ecc.) valgono solo se si condivide la loro particolare visione delle cose. Le regole fondate su un'autorità esterna non sono universali. Il cannibalismo, ad esempio, non é accettato se non in alcune culture primitive.
Qualcosa del genere era già stato affermato nella filosofia Cristiana con San Gerolamo (IV-V secolo) e San Tommaso (XIII secolo) che avevano parlato di sinderesi, una «scintilla conscientiae» (luce della coscienza), facoltà che permetterebbe all'uomo di avere autocoscienza e conoscenza innata del bene e del male.
Per Kant solo la ragione può produrre principi morali valevoli per tutti gli uomini, dato che le morali fondate su autorità esterne all'uomo (ad esempio il pensiero tradizionale, la Chiesa, il comunismo, il femminismo, ecc.) valgono solo se si condivide la loro particolare visione delle cose. Le regole fondate su un'autorità esterna non sono universali. Il cannibalismo, ad esempio, non é accettato se non in alcune culture primitive.
Kant chiama “principi pratici” le regole
generali dell’agire. I principi pratici comprendono le “massime”, regole
soggettive, che non pretendono quindi di valere per tutti (ad es: “vendicati di
ogni offesa” oppure “fai il furbo”) e gli “imperativi”, che valgono
invece per tutti e sono quindi oggettivi. Gli imperativi possono essere
ipotetici o categorici.
Gli imperativi ipotetici consistono nel
pronunciare un comando in vista del conseguimento di un fine, determinano la
volontà solo a condizione che essa voglia certi obiettivi. Gli imperativi
ipotetici si possono riassumere nella formula: se vuoi A fai B; per esempio:
“se vuoi essere promosso, devi studiare”, oppure: “se vuoi provare a diventare un campione
sportivo, devi allenarti”. Questo tipo di comandi configurano un'ipotesi (se
vuoi essere promosso) la cui realizzazione é condizionata dal mettere in atto
forzatamente un comportamento (devi studiare).
L’imperativo categorico, invece, non dice
“se vuoi…devi”, ma dice “devi e basta”. Esso, pertanto:
- non è condizionato da nulla; (l'obbedire non
dipende dal voler andare in Paradiso)
- vale per tutti gli uomini in tutte le condizioni;
(nell'imperativo ipotetico proposto sopra questo vale solo per chi desidera essere promosso)
- esprime una volontà pura, non condizionata
empiristicamente (nell'imperativo ipotetico dell'esempio si metteva in atto la
volontà di obbedire ma al fine di conseguire una promozione).
Quindi l'imperativo morale:
- non è formulabile mediante regole particolari
miranti a far compiere questa o quell'azione determinata in relazione alle
particolari condizioni storiche in cui vivono gli individui;
- non potrà provenire da nessuna autorità esterna
all'uomo. Non lo trovo sui libri o nelle prediche di qualcuno. Se così fosse il
comando morale varrebbe solo per chi riconoscesse quella autorità: verrebbe
così a mancare il carattere di universalità.
Nell'ambito allora della morale formale che esclude
tutte le morali contenutistiche, l'imperativo categorico kantiano è una legge
morale che prescrive "come la volontà debba atteggiarsi, non quali
singoli atti deve compiere".
La prima formula dell’imperativo categorico è la
seguente:
Agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere sempre come principio di una legislazione universale
Quando cioè ti trovi a compiere una determinata azione
scegli come regola (massima), di chiederti sempre se quello che tu stai per
fare possa essere condiviso da tutti. In altri termini, l’imperativo categorico
– che si identifica con la ragione stessa, che comanda l’universalità – è quel
comando che ci prescrive di tenere sempre conto degli altri e che ci ricorda
che un comportamento risulta morale solo se supera il “test”
dell’universalizzabilità. Ad esempio, il rubare qualora venisse
universalizzato renderebbe impossibile il vivere civile. Se risultasse, invece,
che saremmo contenti di vivere in un mondo in cui la nostra massima divenisse legge
necessaria (come una legge di natura), vuol dire che essa è conforme al
dovere.
Nella “Fondazione della Metafisica dei costumi” Kant
aveva proposto anche altre due formule. Una dice:
·
Agisci in modo da trattare l'umanità così in te come negli altri sempre anche come fine, non mai solo come mezzo
L'uomo non deve mai essere solo strumento di un'azione
morale, ma anche il fine di ogni atto buono. È importante nel citare
questa frase ricordarsi l' "anche" e il "solo": Kant non
era un illuso e sapeva bene che molte delle relazioni interpersonali usano
effettivamente l'uomo come mezzo (assegnare un lavoro ad un'altra persona è a
tutti gli effetti usarla come "mezzo" in quanto questa viene assunta
per fare qualcosa per noi). La frase va quindi interpretata alla luce della
limitazione che Kant pone: usiamo pure l'uomo come mezzo, ma ricordandoci che è
il fine di ogni atto buono e gli si deve attribuire la dignità che gli spetta.
In virtù di questo, è giusto pagare un muratore affinché ci costruisca la casa
ed è sbagliato mandare a morire un'altra persona per salvarci la pelle.
La terza e l’ultima formula afferma:
Agisci in modo che la tua volontà possa istituire una legislazione universale
Quest’ultima formula è molto simile alla prima,
differisce poiché mette in rilievo la volontà anziché la legge. Kant vuole
evidenziare che la legge morale a cui siamo sottomessi è frutto della nostra
razionalità, non ha un’origine esterna.
La formula più chiara e l’unica che Kant mantiene
nella Critica è la prima, le altre sono specificazioni o sotto-formulazioni di
essa.
L’esistenza della legge morale non deve essere
provata, dato che si impone alla coscienza come un “fatto della ragione” che si
può spiegare solo ammettendo la libertà. L'uomo che decide, in obbedienza al
dovere morale, di compiere una determinata azione sa che per quanto la sua
decisione possa essere spiegata naturalisticamente, magari con motivazioni
psicologiche, la vera sostanza della sua morale non risiede in questa
concatenazione causale ma in una libertà che coincide con l'essenza razionale
del suo essere uomo.
L'uomo quindi è un essere che appartiene a due mondi:
in quanto dotato di sensi appartiene a quello naturale, e per questo è
sottoposto alle leggi causali; in quanto creatura razionale, però, l'uomo
appartiene anche a quello che Kant chiama il mondo "intellegibile"
(noumeno), cioè il mondo com'è in sé indipendentemente dalle nostre sensazioni
o dai nostri legami conoscitivi, e perciò in esso egli è assolutamente libero
(autonomo), di una libertà che manifesta nell'obbedienza alla legge morale,
all' "imperativo categorico".
La formalità della legge e il dovere
Nella “Fondazione della metafisica dei costumi” Kant
introduce l’idea del “regno dei fini” che, secondo Kant, è
la comunità ideale degli esseri ragionevoli, in quanto obbediscono alle leggi
della morale. In questo regno ogni membro è, nello stesso tempo, legislatore e
suddito.
Secondo Kant, ogni uomo, anzi, ogni essere ragionevole, essendo fine in se stesso, possiede un valore non relativo ma assoluto. Poiché solo la moralità è la condizione esclusiva affinché un essere ragionevole possa essere fine in sè, la dignità compete all’uomo in quanto membro del regno dei fini, ed essere ragionevole che obbedisce solo alla legge da lui stesso istituita.
Secondo Kant, ogni uomo, anzi, ogni essere ragionevole, essendo fine in se stesso, possiede un valore non relativo ma assoluto. Poiché solo la moralità è la condizione esclusiva affinché un essere ragionevole possa essere fine in sè, la dignità compete all’uomo in quanto membro del regno dei fini, ed essere ragionevole che obbedisce solo alla legge da lui stesso istituita.
Per materia Kant intende un oggetto desiderato, mentre
per forma intende l’universalità della legge. Se io comando, ad esempio, “onora
il padre e la madre”, fornisco un contenuto (materia) all’imperativo. Se si
subordina la legge etica al contenuto, però, si cade nell’utilitarismo, giacchè
la volontà viene determinata dai contenuti.
Per formalismo etico si intende, quindi, la
dottrina secondo cui il motivo determinante dell’azione morale non è la materia
ma la forma, la quale non ci dice cosa dobbiamo fare, ma come dobbiamo fare
ciò che facciamo.
L’azione compiuta unicamente in vista della legge e
per rispetto della legge è il dovere. Kant afferma che noi non dobbiamo agire
in vista di qualche scopo ma solo per dovere, ovvero secondo l’ideale del
dovere-per-il-dovere.
Gli studiosi hanno parlato di rigorismo kantiano
per alludere al carattere severo della morale critica e al suo ideale del
dovere-per-il-dovere, che esclude ogni emozione o sentimento.
Nell’etica di Kant, in polemica col sentimentalismo,
si riconosce diritto di esistenza ad un unico sentimento: il rispetto per la
legge. Tale sentimento che origina in noi a priori è l’unico vero movente
dell’azione morale.
Kant distingue tra legalità e moralità. La
moralità è la conformità esteriore di un’azione alla legge, che però è
determinata da un movente sensibile col fine di evitare un danno o procurarmi
un qualche vantaggio (ad es: faccio l’elemosina per andare in paradiso). La
moralità è, invece, l’adesione sincera della volontà alla legge, a prescindere
dagli impulsi sensibili.
La volontà buona è la convinta adesione della volontà
alla legge, ovvero quella condizione suprema di ogni bene che rappresenta
l’unico bene in senso assoluto, cioè l’unica cosa incondizionatamente buona.
Il dovere e la volontà buona, secondo Kant, innalzano l’uomo al di sopra del mondo sensibile, dove vige il meccanismo delle leggi naturali, e lo fanno partecipare al mondo intelligibile, dove vige la libertà. Affermandosi come noumeno, l’uomo non annulla se stesso come fenomeno, cioè come essere sensibile, perché l’attività noumenica dell’uomo può attuarsi solo nel mondo sensibile e in virtù di esso.
Il dovere e la volontà buona, secondo Kant, innalzano l’uomo al di sopra del mondo sensibile, dove vige il meccanismo delle leggi naturali, e lo fanno partecipare al mondo intelligibile, dove vige la libertà. Affermandosi come noumeno, l’uomo non annulla se stesso come fenomeno, cioè come essere sensibile, perché l’attività noumenica dell’uomo può attuarsi solo nel mondo sensibile e in virtù di esso.
L’autonomia etica
Le varie caratteristica della legge morale che abbiamo elencato convergono in quella dell'autonomia, che le riassume tutte.
Per Kant la volontà deve potersi determinare in conformità della propria legge. Infatti se la libertà, in senso negativo, coincide con l’indipendenza dalle inclinazioni sensibili e naturali, in senso positivo coincide con la facoltà auto legislatrice della volontà. Kant introduce il termine “eteronomia” per designare la dipendenza della volontà da una legge esterna. L’eteronomia consiste quindi nella dipendenza della volontà da una norma che non è la propria, che è altro (heteròs) rispetto a sé. Anziché scaturire da una pura forma, dall’imperativo categorico, deriva da princìpi o contenuti materiali. Kant stabilisce una tavola dei principi pratici materiali (o eteronomi) dividendoli in soggettivi e oggettivi. Qualsiasi fine estrinseco alla legge morale stessa (cioè al dovere), anche il fine più nobile, snaturerebbe la morale. Peraltro se la morale dipendesse da motivi eteronomi mancherebbe di libertà ed universalità. Di conseguenza sono escluse tutte le morali in qualche modo "eteronome". Kant stabilisce una tabella di sei morali eteronome e distingue i motivi in soggettivi e oggettivi, interni ed esterni:
Kant parla, quindi, di rivoluzione copernicana
morale, che consiste nell’aver posto l’uomo al centro dell’universo morale,
capovolgendo il rapporto soggetto-oggetto, così come lo aveva posto al centro anche in campo gnoseologico, considerandolo legislatore della natura.
La teoria dei postulati morali
Nella sezione dell'opera chiamata "dialettica
della ragion pratica" Kant sostiene che la vita morale non sarebbe
sufficientemente fondata senza tre postulati che ci inseriscono nel mondo
noumenico precluso alle possibilità della "ragione pura".
Postulato è per Kant una proposizione teoretica, ma
come tale non dimostrabile, in quanto inerisce inseparabilmente ad una legge
pratica che vale incondizionatamente a priori. La volontà, determinata da
questa legge, esige queste condizioni necessarie all'osservanza dei propri
precetti. Questi postulati non sono dogmi teorici, ma presupposizioni
necessarie dal punto di vista pratico.
Ogni morale non può essere limitata nel conseguimento
del bene. Kant chiama “bene supremo” la perfetta virtù morale. La virtù
da sola, però, non appaga tutte le aspirazioni umane. Il fine dell'azione
morale quindi deve essere il "bene sommo", vale a dire
"il bene più completo" che si identifica con l’unione di virtù e
felicità.
Bisognerà quindi postulare
per l'azione morale diretta al bene più completo che ci sia:
1) la libertà (e quindi l'anima)
2) l'immortalità dell'anima
3) l'esistenza di Dio
2) l'immortalità dell'anima
3) l'esistenza di Dio
1) La libertà. Già nella Critica della ragion
pura c'era un accenno all'io legislatore, da cui la Dialettica
trascendentale trae l'illusione di un'anima. La ragione pratica ora la esige
come presupposto. Sarebbe infatti impossibile l'obbligazione se non esistesse
la libertà. E la libertà non è che la rivelazione di un mondo sovrasensibile,
di un noumeno, di una sostanza spirituale, la quale è per ciò stesso
interamente indipendente dalla legge naturale dei fenomeni, cioè dalla legge
della causalità. La libertà è la condizione dell’etica che mentre prescrive il
dovere presuppone anche la possibilità di compierlo.
2) L'immortalità dell'anima. Per capire questo
postulato è necessario rifarsi al concetto kantiano di virtù, di felicità, di
sommo bene. La virtù, dice Kant, è il bene supremo; poiché il processo di
avvicinamento alla virtù (la virtù perfetta è chiamata da Kant
"santità") deve procedere oltre il breve tempo della vita
terrena, occorre allora postulare che la propria esistenza possa proseguire
all'infinito.
3) L'esistenza di Dio. Se la realizzazione
della virtù implica l’esistenza di un’anima immortale, la realizzazione del
sommo bene (virtù + felicità) implica l’esistenza di un Essere supremo che
garantisca la giusta proporzione tra merito e felicità.
Ecco quindi comparire come "postulati della
ragion pratica" quelle che erano le idee della Ragione metafisica
che non trovavano spiegazione nella dialettica trascendentale e che
dimostravano l'illusorietà e l'inganno della metafisica quando pretendeva di
presentarsi come scienza. Ora quelle stesse idee fallaci sul piano teorico
acquistano invece valore sul piano pratico, morale, divengono corollari della
legge morale.
Alla base dei corollari della ragion pratica non vi è
un "so" ma un "voglio": "voglio che
esista Dio, voglio che la mia esistenza in questo mondo sia anche un'esistenza
nel mondo intelligibile, voglio che la mia durata sia senza fine".
Se i postulati non potranno mai assumere il valore di
un vero e proprio sapere nello stesso tempo però nessun progresso scientifico
potrà mai metterli in dubbio, anzi è proprio la loro insostenibilità razionale
che darà valore all'azione morale. Se l'immortalità dell'anima. l'esistenza di
Dio fossero verità certe, come tali renderebbero impossibile ogni autentica
azione morale. Se gli uomini praticassero il bene per paura di un castigo o per
speranza di un bene e non per un dovere razionale connesso alla nostra
stessa natura, la morale diverrebbe "eteronoma", perderebbe ogni
significato.
Il Primato della Ragion Pratica
Il "primato" della ragion
pratica, sostenuto da Kant, consiste nella prevalenza dell’interesse pratico su
quello teoretico e nel fatto che la ragione ammette, in quanto è pratica,
proposizioni che non potrebbe ammettere nel suo uso teoretico. Questo primato
trae la propria origine dalla teoria dei postulati etici. Come abbiamo visto,
questi postulati, attinti dal mondo transfenomenico e metafisico, non possono
però valere come conoscenze. Kant insiste infatti sulla non-teoreticità di queste
proposizioni le quali rappresentano soltanto una ragionevole speranza
dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima e non possono assolutamente
essere intese come certezze razionali, dal momento che un’eventuale ammissione
della loro validità conoscitiva minerebbe alla base i principi di libertà e
autonomia della morale stessa, e sarebbe nuovamente la religione (o la
metafisica) a fondare la morale. Kant sostiene invece che non sono le verità
religiose a fondare la morale, bensì il contrario. Con la teoria dei
postulati, quindi, Kant non ha eliminato l’autonomia dell’etica, ma l’ha
solamente integrata con una sorta di "fede razionale".
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