(Sintesi di una trasmissione radiofonica andata in onda nell’aprile 2001 su radio 2)
L’antica scienza non è interessante soltanto per i risultati che erano stati raggiunti, ma lo è ancora di più per il metodo usato. La caratteristica essenziale del metodo scientifico antico, come di quello moderno, è il metodo dimostrativo. Ma naturalmente il metodo dimostrativo permette solo di ricavare conseguenze da premesse.
Resta il problema di come scegliere le premesse e naturalmente, poiché non si può rinviare all’infinito la scelta dei punti di partenza, occorre accettare dei punti di partenza che non possono essere dimostrati. Questi punti di partenza non dimostrati erano chiamati “lambanomena” termine tradotto, attraverso il latino, con “postulati” o anche “ipotesi”. La parola ipotesi è una parola greca. Ypotesis viene da ypotitemi che significa “pongo sotto”, significa letteralmente fondamento, base, e quindi ha un significato notevolmente diverso da quello che associamo oggi al termine ipotesi o ipotetico. La storia di questa parola, come di altri termini scientifici che riguardano il metodo scientifico, è molto illuminante sulla storia del pensiero. Ad esempio Aristotele (IV sec. a.C.) parla di ypoteses tes politeia, cioè di fondamento del governo. Non c’è nulla di ipotetico in quest’idea. Teofrasto (IV-III sec a.C.), nei suoi libri di botanica, dice che le radici sono la “ypotesis” degli alberi. Quindi quello che per noi è diventato un’ipotesi erano i principi della teoria.
Ora, come si fa a verificare la validità, l’accettabilità di queste ipotesi? Sesto Empirico, per esempio, usa il termine ypotesis anche per i postulati della geometria di Euclide , proprio come sinonimo del termine postulato. L’idea che le ipotesi siano verità semplicemente verificabili non funziona, non è accettabile. Ad esempio Aristarco (III sec a.C.), a quanto ci dice Archimede (III sec. a.C.), aveva avanzato l’ipotesi che il sole fosse fisso. Come si fa a verificare immediatamente che il sole è fermo? A nessun uomo, prima di Aristarco, era venuto in mente che il sole potesse essere fermo; tutti lo vediamo muoversi. Analogamente pensiamo alle ipotesi e alle proposizioni iniziali dell’ottica euclidea: le ipotesi riguardano la struttura dei raggi visuali. I raggi visuali sono gli strumenti con cui noi vediamo, sono intermediari, sono essenziali per la visione ma proprio per questo non sono i direttamente visti, e quindi non possiamo vedere se le assunzioni che fa Euclide (III sec a.C.) sui raggi visuali sono vere.
Sorge quindi il problema di come basare le conoscenze scientifiche scegliendo nel modo opportuno le ipotesi, cioè quali sono i punti di partenza di cui possiamo essere certi. Da un punto di vista logico i punti di partenza sono i postulati o le ipotesi, ma da un punto di vista euristico (ogni procedimento che permette di giungere a nuove conoscenze) il punto di partenza è dato dalla percezione.
Sesto Empirico (II sec d.C.), che è la principale fonte che abbiamo sull’antico scetticismo, afferma che esiste una sola cosa di cui anche gli scettici non dubitano e di cui nessuno può dubitare: i phainomena. Per phainomena però non s’intende quello che noi chiamiamo “fenomeni” ma qualcosa di molto diverso, cioè le apparenze. Siamo così abituati da una lunga tradizione, che risale sia al platonismo che alla religione, a svalutare le apparenze rispetto alla conoscenza vera, che può sembrare strano che l’unico fondamento certo della conoscenza siano considerate le apparenze degli scettici. Ci sono molti passi in questa direzione, ad esempio anche Erofilo (IV-III sec a.C.), afferma che l’unica cosa di cui possiamo essere certi sono le apparenze. Ad esempio, dice, se io ho sensazione di caldo o freddo, posso ignorare le cause ma non posso dubitare che ho effettivamente caldo o freddo. (....) Quindi se le teorie scientifiche sono basate logicamente sulle ipotesi o postulati, mentre l’unica cosa certa di cui non possiamo dubitare sono i phainomena, nel senso etimologico greco della parola, cioè le apparenze, le sensazioni, le percezioni, qual’è il legame tra le ipotesi e i fenomeni? Come è spiegato in molti testi, ad esempio nella testimonianza di Archimede sull’eliocentrismo di Aristarco, la caratteristica essenziale che debbono avere le ipotesi per essere accettabili è quella che debbono permettere di salvare i fenomeni. La teoria deve permettere di dedurre, col metodo dimostrativo, dalle ipotesi ciò che poi effettivamente viene percepito, viene osservato. Ad esempio Aristarco aveva fatto l’ipotesi che il sole fosse fermo e che la terra e i pianeti girassero di moto circolare e uniforme intorno al sole, e poi era stato capace di dedurre da questa ipotesi qual era il moto di Marte osservato dalla Terra, e aveva verificato che il moto dedotto è proprio quello che si può osservare guardando il cielo e guardando Marte. Allo stesso modo nell’Ottica di Euclide da quelle ipotesi che riguardano le geometrie dei raggi visuali si fanno delle deduzioni che riguardano ciò che effettivamente noi percepiamo vedendo. Quindi si deducono i fenomeni e la corrispondenza tra i fenomeni dedotti e i fenomeni effettivamente percepiti assicura che l’ottica di Euclide è una teoria che ha una sua validità. Vi è però un problema: se da delle ipotesi è possibile dedurre i fenomeni osservati non è detto che non ci siano altre ipotesi da cui è possibile dedurre gli stessi fenomeni. Se io vedo un corpo che si muove verso destra posso fare l’ipotesi che il corpo sia fermo e che io mi stia muovendo verso sinistra; posso fare anche l’altra ipotesi che io stia fermo e che sia effettivamente il corpo a muoversi verso sinistra. Tutt’e due le ipotesi permettono di ricavare gli stessi fenomeni, cioè la stessa apparenza del moto apparente verso destra. E quindi, in molti casi, non è possibile scegliere un’ipotesi giusta. C’è un esempio molto bello che è fatto da Gemino (I sec a.C.), a questo proposito, proprio a scopo epistemologico, in cui dice che gli astronomi possono spiegare gli stessi moti con modelli matematici diversi: ad esempio con l’uso di un deferente ed epiciclo oppure con un eccentrico. Se con due modelli matematici diversi si riesce ad arrivare allo stesso moto che viene osservato non si può scegliere quale delle due ipotesi fatte sia quella giusta. Quindi alle ipotesi non si può applicare in modo meccanico e banale l’attributo di verità o di falsità. Un’ipotesi è valida se da essa discendono i fenomeni osservati, ma può non essere più valida di un’altra contraddittoria con quella che permette di spiegare gli stessi fenomeni. Quindi questa possibilità di spiegazioni molteplici basate su ipotesi diverse indebolisce, se vogliamo, il valore di “verità” delle ipotesi.
L’antico metodo scientifico basato sulla costruzione di teorie fondate su ipotesi che potessero salvare le apparenze, cioè i fenomeni, le apparenze nel linguaggio dell’epoca, fu abbandonato all’inizio della rivoluzione scientifica moderna, in particolare all’epoca di Newton. E fu sostituito da una concezione che sembra molto più rozza. In particolare furono cambiati i significati dei termini greci che si continuarono ad usare, in particolare i termini fenomeno e ipotesi. Fenomeno non fu più usato nei termini di percezione, cioè di interazione tra soggetto che osserva e oggetto osservato, ma direttamente come “fatti”, dimenticando che l’unica cosa di cui possiamo essere certi, come diceva Erofilo, è la percezione, cioè l’interazione tra l’osservatore e l’osservato. Allo stesso tempo cambia il significato della parola ottica. L’antica parola greca viene conservata ma non s’intende più con “optichè” lo studio della visione, ma lo studio direttamente della luce, dimenticando che noi possiamo esser certi di ciò che vediamo più che del comportamento della luce o dell’oggetto osservato. Newton (1642-1727), in particolare, non è soddisfatto di elaborare ipotesi che non siano assolutamente vere, e in questo credo che abbia avuto molto peso la tradizione religiosa che a Newton interessava particolarmente. Questo è un aspetto che spesso si dimentica, cioè la scienza antica era una scienza laica, mentre la scienza della prima età moderna era una scienza profondamente influenzata da tradizioni teologiche.
Credo vi sia ancora da imparare dal punto di vista metodologico dalla scienza antica. Anche oggi, infatti, la scienza, anche se si è enormemente sviluppata dal punto di vista dei contenuti, ha lo scopo di elaborare teorie che permettano di salvare i fenomeni, oltre a quello di procurarsi nuovi fenomeni con la sperimentazione e la tecnologia. Però spesso non vi è consapevolezza di questo, non dico da parte degli scienziati ma da parte del pubblico e spesso anche dei divulgatori. Se chiedete a qualcuno se è la terra a girare intorno al sole o il sole intorno alla terra, tutti sanno che la terra gira intorno al sole, ma in genere non sono consapevoli che l’eliocentrismo è una teoria che permette di salvare alcuni fenomeni, ad esempio le retrogradazioni planetarie. La stessa persona che si scandalizzerebbe a pensare di essere tolemaico, in effetti in genere ignora le retrogradazioni. Naturalmente c’è di peggio se si pensa alla fisica atomica. Tutti sanno che gli atomi hanno elettroni ma solo chi ha fatto studi scientifici all’università credo che, e nemmeno tutti di questi, saprebbe indicare qualche fenomeno salvato dall’ipotesi dell’esistenza degli elettroni.
Spesso la divulgazione scientifica da addirittura l’idea che il compito della scienza, piuttosto che quello di salvare i fenomeni, sia quello di contraddire i fenomeni. Ricordo una trasmissione televisiva di divulgazione di grande successo in cui fu invitata una astrofisica molto nota che spiegò che il vero colore della luna non è quello che noi osserviamo guardando la luna, a noi sembra che la luna abbia un certo colore mentre gli astronomi sanno che il colore vero è un altro. Ora è chiaro che la parola colore nel linguaggio comune, quindi per come viene intesa dal telespettatore, si riferisce ad una percezione, e la percezione, come dicevano gli scettici, è l’unica cosa di cui non possiamo dubitare, quindi il colore della luna è quello che noi osserviamo. Il compito della scienza può essere quello di spiegare perché vediamo quel colore e non di dirci che il colore vero è un altro. Vorrei fare un altro esempio: tutti abbiamo l’esperienza di vivere in uno spazio a tre dimensioni, ma se si compra un libro di divulgazione scientifica sulla fisica contemporanea spesso il libro spiega che, in realtà, lo spazio ha, ad esempio, 42 dimensioni, o qualche altro numero di dimensioni, e lo scopo del divulgatore sembra essere quello di convincere che al di la delle apparenze di uno spazio tridimensionale c’è una profonda verità fatta di un numero enorme di dimensioni di cui il povero lettore non può avere esperienza diretta. Trasmettere l’idea che possa essere utile sapere il numero di dimensioni, senza sapere quali sono i fenomeni che sono spiegati e senza avere nessuna idea, dà un’idea talmente distorta del metodo scientifico da spingere proprio nella direzione opposta, cioè nella direzione dell’irrazionalismo.
L’antica scienza non è interessante soltanto per i risultati che erano stati raggiunti, ma lo è ancora di più per il metodo usato. La caratteristica essenziale del metodo scientifico antico, come di quello moderno, è il metodo dimostrativo. Ma naturalmente il metodo dimostrativo permette solo di ricavare conseguenze da premesse.
Resta il problema di come scegliere le premesse e naturalmente, poiché non si può rinviare all’infinito la scelta dei punti di partenza, occorre accettare dei punti di partenza che non possono essere dimostrati. Questi punti di partenza non dimostrati erano chiamati “lambanomena” termine tradotto, attraverso il latino, con “postulati” o anche “ipotesi”. La parola ipotesi è una parola greca. Ypotesis viene da ypotitemi che significa “pongo sotto”, significa letteralmente fondamento, base, e quindi ha un significato notevolmente diverso da quello che associamo oggi al termine ipotesi o ipotetico. La storia di questa parola, come di altri termini scientifici che riguardano il metodo scientifico, è molto illuminante sulla storia del pensiero. Ad esempio Aristotele (IV sec. a.C.) parla di ypoteses tes politeia, cioè di fondamento del governo. Non c’è nulla di ipotetico in quest’idea. Teofrasto (IV-III sec a.C.), nei suoi libri di botanica, dice che le radici sono la “ypotesis” degli alberi. Quindi quello che per noi è diventato un’ipotesi erano i principi della teoria.
Ora, come si fa a verificare la validità, l’accettabilità di queste ipotesi? Sesto Empirico, per esempio, usa il termine ypotesis anche per i postulati della geometria di Euclide , proprio come sinonimo del termine postulato. L’idea che le ipotesi siano verità semplicemente verificabili non funziona, non è accettabile. Ad esempio Aristarco (III sec a.C.), a quanto ci dice Archimede (III sec. a.C.), aveva avanzato l’ipotesi che il sole fosse fisso. Come si fa a verificare immediatamente che il sole è fermo? A nessun uomo, prima di Aristarco, era venuto in mente che il sole potesse essere fermo; tutti lo vediamo muoversi. Analogamente pensiamo alle ipotesi e alle proposizioni iniziali dell’ottica euclidea: le ipotesi riguardano la struttura dei raggi visuali. I raggi visuali sono gli strumenti con cui noi vediamo, sono intermediari, sono essenziali per la visione ma proprio per questo non sono i direttamente visti, e quindi non possiamo vedere se le assunzioni che fa Euclide (III sec a.C.) sui raggi visuali sono vere.
Sorge quindi il problema di come basare le conoscenze scientifiche scegliendo nel modo opportuno le ipotesi, cioè quali sono i punti di partenza di cui possiamo essere certi. Da un punto di vista logico i punti di partenza sono i postulati o le ipotesi, ma da un punto di vista euristico (ogni procedimento che permette di giungere a nuove conoscenze) il punto di partenza è dato dalla percezione.
Sesto Empirico (II sec d.C.), che è la principale fonte che abbiamo sull’antico scetticismo, afferma che esiste una sola cosa di cui anche gli scettici non dubitano e di cui nessuno può dubitare: i phainomena. Per phainomena però non s’intende quello che noi chiamiamo “fenomeni” ma qualcosa di molto diverso, cioè le apparenze. Siamo così abituati da una lunga tradizione, che risale sia al platonismo che alla religione, a svalutare le apparenze rispetto alla conoscenza vera, che può sembrare strano che l’unico fondamento certo della conoscenza siano considerate le apparenze degli scettici. Ci sono molti passi in questa direzione, ad esempio anche Erofilo (IV-III sec a.C.), afferma che l’unica cosa di cui possiamo essere certi sono le apparenze. Ad esempio, dice, se io ho sensazione di caldo o freddo, posso ignorare le cause ma non posso dubitare che ho effettivamente caldo o freddo. (....) Quindi se le teorie scientifiche sono basate logicamente sulle ipotesi o postulati, mentre l’unica cosa certa di cui non possiamo dubitare sono i phainomena, nel senso etimologico greco della parola, cioè le apparenze, le sensazioni, le percezioni, qual’è il legame tra le ipotesi e i fenomeni? Come è spiegato in molti testi, ad esempio nella testimonianza di Archimede sull’eliocentrismo di Aristarco, la caratteristica essenziale che debbono avere le ipotesi per essere accettabili è quella che debbono permettere di salvare i fenomeni. La teoria deve permettere di dedurre, col metodo dimostrativo, dalle ipotesi ciò che poi effettivamente viene percepito, viene osservato. Ad esempio Aristarco aveva fatto l’ipotesi che il sole fosse fermo e che la terra e i pianeti girassero di moto circolare e uniforme intorno al sole, e poi era stato capace di dedurre da questa ipotesi qual era il moto di Marte osservato dalla Terra, e aveva verificato che il moto dedotto è proprio quello che si può osservare guardando il cielo e guardando Marte. Allo stesso modo nell’Ottica di Euclide da quelle ipotesi che riguardano le geometrie dei raggi visuali si fanno delle deduzioni che riguardano ciò che effettivamente noi percepiamo vedendo. Quindi si deducono i fenomeni e la corrispondenza tra i fenomeni dedotti e i fenomeni effettivamente percepiti assicura che l’ottica di Euclide è una teoria che ha una sua validità. Vi è però un problema: se da delle ipotesi è possibile dedurre i fenomeni osservati non è detto che non ci siano altre ipotesi da cui è possibile dedurre gli stessi fenomeni. Se io vedo un corpo che si muove verso destra posso fare l’ipotesi che il corpo sia fermo e che io mi stia muovendo verso sinistra; posso fare anche l’altra ipotesi che io stia fermo e che sia effettivamente il corpo a muoversi verso sinistra. Tutt’e due le ipotesi permettono di ricavare gli stessi fenomeni, cioè la stessa apparenza del moto apparente verso destra. E quindi, in molti casi, non è possibile scegliere un’ipotesi giusta. C’è un esempio molto bello che è fatto da Gemino (I sec a.C.), a questo proposito, proprio a scopo epistemologico, in cui dice che gli astronomi possono spiegare gli stessi moti con modelli matematici diversi: ad esempio con l’uso di un deferente ed epiciclo oppure con un eccentrico. Se con due modelli matematici diversi si riesce ad arrivare allo stesso moto che viene osservato non si può scegliere quale delle due ipotesi fatte sia quella giusta. Quindi alle ipotesi non si può applicare in modo meccanico e banale l’attributo di verità o di falsità. Un’ipotesi è valida se da essa discendono i fenomeni osservati, ma può non essere più valida di un’altra contraddittoria con quella che permette di spiegare gli stessi fenomeni. Quindi questa possibilità di spiegazioni molteplici basate su ipotesi diverse indebolisce, se vogliamo, il valore di “verità” delle ipotesi.
L’antico metodo scientifico basato sulla costruzione di teorie fondate su ipotesi che potessero salvare le apparenze, cioè i fenomeni, le apparenze nel linguaggio dell’epoca, fu abbandonato all’inizio della rivoluzione scientifica moderna, in particolare all’epoca di Newton. E fu sostituito da una concezione che sembra molto più rozza. In particolare furono cambiati i significati dei termini greci che si continuarono ad usare, in particolare i termini fenomeno e ipotesi. Fenomeno non fu più usato nei termini di percezione, cioè di interazione tra soggetto che osserva e oggetto osservato, ma direttamente come “fatti”, dimenticando che l’unica cosa di cui possiamo essere certi, come diceva Erofilo, è la percezione, cioè l’interazione tra l’osservatore e l’osservato. Allo stesso tempo cambia il significato della parola ottica. L’antica parola greca viene conservata ma non s’intende più con “optichè” lo studio della visione, ma lo studio direttamente della luce, dimenticando che noi possiamo esser certi di ciò che vediamo più che del comportamento della luce o dell’oggetto osservato. Newton (1642-1727), in particolare, non è soddisfatto di elaborare ipotesi che non siano assolutamente vere, e in questo credo che abbia avuto molto peso la tradizione religiosa che a Newton interessava particolarmente. Questo è un aspetto che spesso si dimentica, cioè la scienza antica era una scienza laica, mentre la scienza della prima età moderna era una scienza profondamente influenzata da tradizioni teologiche.
Credo vi sia ancora da imparare dal punto di vista metodologico dalla scienza antica. Anche oggi, infatti, la scienza, anche se si è enormemente sviluppata dal punto di vista dei contenuti, ha lo scopo di elaborare teorie che permettano di salvare i fenomeni, oltre a quello di procurarsi nuovi fenomeni con la sperimentazione e la tecnologia. Però spesso non vi è consapevolezza di questo, non dico da parte degli scienziati ma da parte del pubblico e spesso anche dei divulgatori. Se chiedete a qualcuno se è la terra a girare intorno al sole o il sole intorno alla terra, tutti sanno che la terra gira intorno al sole, ma in genere non sono consapevoli che l’eliocentrismo è una teoria che permette di salvare alcuni fenomeni, ad esempio le retrogradazioni planetarie. La stessa persona che si scandalizzerebbe a pensare di essere tolemaico, in effetti in genere ignora le retrogradazioni. Naturalmente c’è di peggio se si pensa alla fisica atomica. Tutti sanno che gli atomi hanno elettroni ma solo chi ha fatto studi scientifici all’università credo che, e nemmeno tutti di questi, saprebbe indicare qualche fenomeno salvato dall’ipotesi dell’esistenza degli elettroni.
Spesso la divulgazione scientifica da addirittura l’idea che il compito della scienza, piuttosto che quello di salvare i fenomeni, sia quello di contraddire i fenomeni. Ricordo una trasmissione televisiva di divulgazione di grande successo in cui fu invitata una astrofisica molto nota che spiegò che il vero colore della luna non è quello che noi osserviamo guardando la luna, a noi sembra che la luna abbia un certo colore mentre gli astronomi sanno che il colore vero è un altro. Ora è chiaro che la parola colore nel linguaggio comune, quindi per come viene intesa dal telespettatore, si riferisce ad una percezione, e la percezione, come dicevano gli scettici, è l’unica cosa di cui non possiamo dubitare, quindi il colore della luna è quello che noi osserviamo. Il compito della scienza può essere quello di spiegare perché vediamo quel colore e non di dirci che il colore vero è un altro. Vorrei fare un altro esempio: tutti abbiamo l’esperienza di vivere in uno spazio a tre dimensioni, ma se si compra un libro di divulgazione scientifica sulla fisica contemporanea spesso il libro spiega che, in realtà, lo spazio ha, ad esempio, 42 dimensioni, o qualche altro numero di dimensioni, e lo scopo del divulgatore sembra essere quello di convincere che al di la delle apparenze di uno spazio tridimensionale c’è una profonda verità fatta di un numero enorme di dimensioni di cui il povero lettore non può avere esperienza diretta. Trasmettere l’idea che possa essere utile sapere il numero di dimensioni, senza sapere quali sono i fenomeni che sono spiegati e senza avere nessuna idea, dà un’idea talmente distorta del metodo scientifico da spingere proprio nella direzione opposta, cioè nella direzione dell’irrazionalismo.
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