Il Risorgimento italiano - Parte prima

COSA FU IL RISORGIMENTO? Per Risorgimento si intende quel complesso movimento politico, intellettuale e militare che condusse all'unificazione politica della penisola italiana nel periodo che va dal 1815, fine del Congresso di Vienna, e termina nel 1870 con la presa di Roma (secondo la maggioranza degli storici).


Il termine, a partire dagli anni '20 del secolo XIX, iniziò a penetrare direttamente nella lingua del tempo poiché costituiva uno slogan vincente. Esso rievocava un senso di sacralità e collegava, più o meno coscientemente, la resurrezione della nazione a quella promessa dalla religione cattolica, condivisa dalla quasi totalità degli italiani di allora. Secondo i patrioti del tempo anche la nazione Italiana, come Lazzaro di Betania, sarebbe fulgidamente risorta.
Parlare di “risorgimento”, tuttavia, non sembra adeguato a descrivere la vicenda dell'unificazione, poiché per risorgere bisogna essere già esistiti. Infatti l’identità nazionale italiana non è sempre esistita, e come tutto ciò che fa parte del nostro mondo caduco, anch'essa ha avuto una sua genesi.

L'invenzione della nazione italiana.
Denis Mack Smith ha opportunamente ricordato, in un suo saggio dedicato al Risorgimento italiano, che l'idea di un’unità culturale italiana è rintracciabile sin dal ‘300, quando Dante e Petrarca «vagheggiarono un ideale poetico di ciò che l’Italia unita avrebbe potuto essere» e che più tardi Machiavelli si augurò che un liberatore sottraesse l’Italia al dominio straniero. Sempre Mack Smith ha notato che, nel periodo illuminista, lo storico napoletano Pietro Giannone vide nel papa un formidabile ostacolo sulle vie del cambiamento e «denunciò quella che considerava un’eccessiva ingerenza della Chiesa nella politica» e che Antonio Genovesi, professore di economia politica a Napoli, riconobbe nella frammentazione politica «un ostacolo al progresso economico italiano». Gli illuministi, però, non giunsero a teorizzare l'unificazione italiana.
Un’influenza decisiva sulla nascita dell'idea di unità la ebbero le occupazioni napoleoniche. Fu Napoleone a distruggere ciò che restava del sistema feudale e a portare in Italia le idee della rivoluzione francese. Egli creò un regno dell’Italia settentrionale che, in seguito, avrebbe funzionato da esempio per i progetti cavouriani di allargamento del regno di Sardegna. Napoleone, inoltre, all'apogeo del suo dominio, decretò la fine del potere temporale dei papi e cancellò lo Stato della Chiesa (1809) creando un precedente che avrebbe agevolato l'occupazione dello Stato della Chiesa da parte del Regno d'Italia nel 1870. L'arrivo dei francesi in Italia aveva aperto le porte a nuove idee: l'uguaglianza tra gli uomini, la libertà di pensiero, la partecipazione al dibattito politico e alla vita pubblica.
Negli anni successivi al crollo del sistema napoleonico, iniziò a diffondersi tra le classi più colte, tra gli studenti e l’alta borghesia delle città italiane, una crescente nostalgia per le idee sorte nel periodo napoleonico. Comparve un desiderio di libertà e di indipendenza che, nell'atmosfera romantica del tempo, si concretizzò nella speranza di una rinascita nazionale.
Quando durante la rivoluzione francese venne affrontato il problema della sovranità, nella «Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino» del 26 agosto 1789, si affermò solennemente che essa non risiede più nel re, ma in un soggetto collettivo, superiore agli individui: la “nazione”. Da allora il termine “nazione” entrò prepotentemente nel vocabolario politico dell'Europa. In Germania, più tardi, il concetto di “nazione tedesca” divenne il collante di una diffusa reazione all'occupazione francese. Fu il filosofo Johann Fichte, nei Discorsi alla nazione tedesca del 1808, a indicare nella lingua, nel sangue, nella cultura, gli elementi fondanti di una nazione. Più tardi, dopo il Congresso di Vienna e la restaurazione, anche in Italia accadde qualcosa di simile. Manzoni immaginava la nazione italiana come: «una d'arme, di lingua, d'altare, di memorie, di sangue e di cor» (Marzo 1821).

Gli scrittori creano la Nazione.
In Italia furono i letterati a concepire e diffondere il progetto dell'unità. Essi guardavano alla plurisecolare tradizione del volgare italiano come prova inequivocabile dell'esistenza della nazione italiana. In realtà, come ha mostrato Alberto Mario Banti, solo una parte minima di italiani parlava regolarmente l'italiano (tra il 2,5 e il 9,5%). Quasi l'80% degli italiani di allora era analfabeta e capiva solo il dialetto locale. Il cattolicesimo più che stringere assieme gli italiani, tendeva a considerarli come parte di una comunità sovranazionale. La stessa storia degli italiani era stata segnata più da scontri e rivalità che da gesti di fraternità e collaborazione. Gli italiani, infine, non costituivano affatto un etnia distinta per i tratti fisici e psicologici, essendo il risultato della fusione di numerose differenti etnie. Il progetto di costruire la nazione italiana si scontrava, quindi, con ostacoli apparentemente insormontabili. Eppure, anche se in modi imprevedibili e rocamboleschi, sarebbe stato realizzato.
Per propagandare l'idea della nazione occorreva parlare al cuore e al ventre della gente, usare un linguaggio che tutti potessero intendere. Solo così si potevano accendere le passioni necessarie ad avviare un azzardato piano di unificazione politica della penisola. Emerse dunque una letteratura patriottica che, attraverso poesie, saggi storici, romanzi, melodrammi e dipinti, si propose di raccontare urbi et orbi il mito della nazione italiana. In queste opere, afferma ancora Alberto Mario Banti, (Ibidem, p.46) «la patria è madre, tutti i suoi figli (e figlie) sono fratelli (e sorelle), i leader sono padri della patria».
Furono i romanzi storici di Scott e le opere di autori come Byron o Hugo, che appassionavano i lettori di allora, a fornire il modello che venne adottato da scrittori come Manzoni, Guerrazzi, D’Azeglio e altri al fine di far sbocciare nei lettori una coscienza storica e un ambizione nazionalista. Questi autori aggiravano la censura ambientando i loro racconti in epoche lontane e facendo ricorso a frequenti metafore. Nei loro racconti emergono regolarmente la figura dell'eroe, del traditore, della ragazza virtuosa e casta che i cattivi violentano o cercano di violentare (come Ginevra nel romanzo Ettore Fieramosca, o la disfida di Barletta di M. D'Azeglio, oppure Lucia ne I Promessi Sposi di Manzoni). Per suscitare l'odio verso lo straniero occupante occorreva dipingerlo come un atroce criminale.

Mistica della Nazione.
La tradizione cattolica, così ben radicata in Italia, fu ampiamente utilizzata dalla pedagogia nazionalista come una grande fonte a cui golosamente attingere per costruire una mistica della patria. Il “sacrificio” degli eroi avrebbe liberato tutti gli italiani come il sacrificio di Cristo l'intera umanità. Non stupisce quindi che Garibaldi fosse raffigurato con le sembianze di Gesù, e che Mazzini amasse definire la propaganda delle idee risorgimentali un’opera di “apostolato”. Solo la diffusione di un'autentica "fede religiosa", di un senso sacrale della patria, poteva spingere migliaia di giovani a mettere a rischio la propria vita per un progetto che, agli occhi di qualsiasi persona sensata, sarebbe apparso molto improbabile, per non dire pazzesco.

Utilità economica dell'unità.
Nella propaganda del tempo fu ampiamente rimarcato che l’Italia unita avrebbe offerto ampi benefici economici per tutti. Giuseppe Mazzini, per esempio, aveva biasimato la divisione dell'Italia in otto stati, ciascuno con una costosa corte da mantenere, con monete differenti, con molteplici sistemi di pesi e misure, con esose barriere doganali, con differenti ordinamenti amministrativi e polizieschi. Le divisioni, lamentava Mazzini, soffocano i commerci e rendono gli italiani stranieri gli uni agli altri. Eppure alcuni sovrani del tempo non erano soddisfatti dai vincoli doganali con gli stati confinanti, e decisero così di erigerne anche all’interno dei loro stessi stati. Nel piccolo stato di Parma, ad esempio, chi avesse viaggiato da Guastalla alla capitale avrebbe incontrato sette caselli daziari! La grave miopia di alcuni governanti rendeva impossibile la percezione dei benefici che un mercato comune avrebbe offerto a tutti gli italiani e non soltanto alla borghesia.

L'Italia prima dell'Unità
Il Congresso di Vienna del 1815 aveva sancito il dominio austriaco sull’Italia, diretto nel caso del lombardo-veneto, indiretto nei casi della Toscana, di Modena e Reggio, di Parma e Piacenza. A sud governavano i Borboni, alleati degli austriaci. Il papa possedeva uno stato ampio (Lazio, Umbria, Marche, le legazioni di Bologna, Ferrara e Ravenna e le enclavi di Benevento e Pontecorvo nel sud Italia) ma economicamente molto arretrato. Solo il regno di Sardegna (Savoia, Piemonte, Liguria, Sardegna, Nizza) era realmente indipendente. La popolazione italiana era di poco inferiore ai venti milioni di abitanti, lo stato più popolato era il Regno di Napoli (6.766.000 abitanti), quello con meno abitanti era la Repubblica di San Marino (7.000 abitanti).
L'eredità napoleonica fu in gran parte abbandonata. Anche se la restaurazione legittimistica non assunse sempre un carattere poliziesco, la censura, la repressione e la restaurazione degli antichi privilegi suscitarono un forte malcontento tra i liberali. Anche il Regno di Sardegna era caratterizzato da una politica fortemente conservatrice. Nel Lombardo-Veneto l'amministrazione napoleonica era stata in parte mantenuta. Soprattutto in Lombardia, sin dagli anni Quaranta, era stato avviato un forte sviluppo nei settori agricolo e industriale. Molti intellettuali milanesi, nonostante la censura, iniziarono ad orientarsi sin dal 1815 verso la prospettiva dell'indipendenza. Simbolo di questa tendenza fu il periodico “Il Conciliatore”, nato nel 1818 e soppresso dalla censura austriaca nell'ottobre del 1819.
I governi di Ferdinando III d’Asburgo-Lorena in Toscana e quello di Maria Luisa d'Asburgo a Parma e Piacenza erano più liberali di quello di Francesco IV d'Asburgo-Este a Modena e Reggio. Nello Stato Pontificio, sotto il pontificato di Leone XII (1823-1829), fu introdotto un pesante regime poliziesco. Anche nel Regno delle due Sicilie, sottoposto a una fiscalità oppressiva, la restaurazione aveva assunto forme repressive. Tutto ciò suscitò un forte risentimento sia tra la borghesia, sia negli ambienti militari, che provocò la diffusione di associazioni segrete rivoluzionarie, come la Carboneria.

La Carboneria
Il periodo delle associazioni segrete costituisce la fanciullezza del Risorgimento. Le speranze di libertà sorte nel periodo napoleonico e frustrate dalla restaurazione furono il propellente che produsse, negli anni '20, il decollo delle associazioni segrete che miravano alla riunificazione e alla liberazione della nazione. Tra queste la più importante e meglio organizzata era la Carboneria, che si ispirava alla Massoneria per la segretezza, l'uso di simboli e di riti esoterici. La Massoneria aveva come fine l'emancipazione dell'umanità ma, almeno ai suoi albori, intendeva realizzarla senza ricorrere alla violenza. La Carboneria, invece, riteneva irrinunciabile la lotta violenta al tiranno. Il nome "massoneria" derivava dal mestiere dei muratori, mentre "carboneria" veniva dai produttori di carbone di legna. È impossibile conoscere con certezza la genesi della Carboneria, anche se quella francese sembra la più probabile. In Italia l'associazione era diffusa soprattutto nel Regno delle due Sicilie, dove intendeva creare una monarchia costituzionale adottando la carta approvata dalle Cortes spagnole nel 1812 (Costituzione di Cadice). I cospiratori erano generalmente aristocratici liberali, studenti universitari o ufficiali che avevano fatto carriera sotto Napoleone. Gli iscritti si chiamavano «buoni cugini» e i luoghi di riunione «baracche». Le riunioni dei capi erano chiamate «vendite». La carboneria era organizzata in senso elitario e prevedeva tre gradi: Apprendista, Maestro e Gran Maestro. Ciascun iscritto era custode di una conoscenza degli obiettivi della setta commisurata al suo grado di appartenenza. Solo i Gran Maestri conoscevano i fini ultimi dell'associazione che non era, peraltro, depositaria di un’idea univoca. Infatti al suo interno circolavano idee diverse e talvolta dissonanti (democrazia, socialismo, ecc.). Nel nord Italia i cospiratori lottavano contro l’occupazione straniera, mentre nel sud volevano limitare i poteri dei re. Anche le donne accedevano alla carboneria e avevano creato una loro associazione, la “Società delle Giardiniere”, che operava nel nord Italia e nel napoletano. Tra le patriote, emerse per amore dell’avventura, intelligenza e cultura, la figura della principessa Cristina Trivulzio di Belgioioso. Sempre attiva nelle varie fasi del risorgimento, passò dalle simpatie carbonare a quelle mazziniane e infine a quelle monarchiche.

Pellico e Maroncelli
In Moravia, vicino alla città di Brno, era situata la tetra fortezza medievale dello Spielberg. Oltre a ladri ed assassini, negli anni '20 dell'800, vi erano rinchiusi anche i detenuti politici. Tra gli “ospiti” più celebri dello Spielberg vi furono Silvio Pellico e Piero Maroncelli. Arrestati a Milano per cospirazione, furono condannati a morte, ma poi la condanna fu commutata in carcere duro. Nel 1830, dopo dieci anni di carcere, arrivò la provvidenziale grazia dell'imperatore che permise a Pellico la pubblicazione del libro Le mie prigioni (1832), in cui descrisse le orribili condizioni dei prigionieri: freddi tuguri sotterranei come celle, catene ai piedi, isolamento, vitto scarso e ripugnante. Senza la generosità di alcuni carcerieri compassionevoli, che di nascosto offrivano ai reclusi un frutto o un pezzo di pane in più del consentito, Pellico e Maroncelli sarebbero sicuramente morti di stenti, come era accaduto a tanti altri prigionieri. Maroncelli per di più, a causa di una cancrena che gli comparve su una gamba, affrontò con struggente coraggio l'amputazione dell'arto eseguita senza anestesia. Per ammissione dello stesso cancelliere Metternich Le mie prigioni danneggiò l'Austria più di una battaglia perduta.

Le insurrezioni dal '20 al '31
Furono le società segrete, sorte in molti paesi europei, a dar via a un ciclo rivoluzionario che, tra il 1820 e il 1825, coinvolse la Spagna, il Portogallo, la Grecia e terminò in Russia con il moto dei decabristi. Anche l'Italia fu teatro di alcuni moti carbonari.
A Napoli, nel luglio del 1820, i cospiratori erano riusciti a costringere il re Ferdinando a concedere la costituzione. La Santa Alleanza reagì e, nel marzo 1821, il moto fu soffocato nel sangue.
Nel Regno di Sardegna, tra il marzo e l'aprile del 1821, il malcontento dei borghesi e dei militari diede luogo a un progetto rivoluzionario. Dopo la proclamazione di una nuova costituzione, riconosciuta dall'erede al trono Carlo Alberto, il re Carlo Felice sconfessò ogni decisione. A quel punto Carlo Alberto abbandonò i rivoluzionari e i lealisti ripristinarono l'ordine.
Il moto di Modena, all'inizio del 1831, ebbe in Ciro Menotti il principale organizzatore. Egli chiese supporto al duca Francesco IV che prima si disse favorevole e poi, intimorito dalle sommosse che stavano scoppiando in diverse città, fece arrestare e condannare a morte Menotti. I moti fallirono sia per l'intervento dell'Austria (come nel caso di Napoli e di Modena), sia per l'infiltrazione di spie, sia per l'isolamento dei rivoluzionari.

Giuseppe Mazzini, il profeta dell'unità
Anche Mazzini fu inizialmente carbonaro, ma in seguito abbandonò la carboneria perché contrario alla segretezza e all'elitarietà dell’organizzazione. «La sua era una critica al pressapochismo, alla viltà, all’astrattezza dei patrioti italiani, ma soprattutto alla loro concezione aristocratica che emarginava il popolo, il quale, secondo lui, da tradizionale oggetto dei cambiamenti doveva diventarne soggetto, protagonista della storia nazionale».
Nel 1830 una soffiata portò Mazzini nelle prigioni del governo piemontese. Tre mesi dopo fu assolto per insufficienza di prove. Dopo la sentenza, però, fu invitato a scegliere tra il confino in qualche remota località del Regno e l’esilio. Mazzini scelse l’esilio e si trasferì a Marsiglia dove, per portar avanti il suo ideale, fondò la “Giovine Italia”, un'associazione che, a differenza della carboneria, era segreta solo per quanto riguardava i nomi degli affiliati e non per i programmi. Il fine era quello di «costituire (...) l'Italia in Nazione Una, Indipendente, Libera, Repubblicana» Il sovvertimento politico doveva scaturire dall'azione di un popolo cosciente del proprio destino, e non dalle macchinazione di un'élite di oscuri cospiratori.
Mazzini reclutò migliaia di giovani che provenivano per la maggior parte dalla borghesia. Nelle campagne, dove l'analfabetismo riguardava quasi la totalità dei contadini, la propaganda dei rivoluzionari non poteva arrivare. La Giovine Italia si chiamava così anche perché mirava alla mobilitazione dei giovani. Nell'associazione non poteva entrare chi aveva più di quarant'anni. In effetti a fare la guerra si va se si è giovani, quando la forza fisica è al culmine. Questi giovani diffusero i programmi dell'associazione tramite giornali e opuscoli clandestini e iniziarono a preparare insurrezioni armate. La Giovine Italia era concepita come una specie di associazione apostolica, simile a un movimento religioso in cui gli iniziati erano disposti a sacrificare tutto, anche la vita, per un'Italia unita, democratica e libera dallo straniero.
La disponibilità al martirio era resa possibile da una profonda fede religiosa che accompagnò sempre Mazzini. Egli si era convinto di vedere «il dito di Dio nelle pagine della storia del mondo» che, come ha voluto liberare la Grecia dai Turchi, libererà anche l'Italia.
Nonostante i roboanti proclami, anche i tentativi insurrezionali dei mazziniani erano destinati al fallimento. Nel 1833 un moto che avrebbe dovuto svilupparsi in Piemonte fu scoperto. Molti ufficiali furono fucilati e Jacopo Ruffini, amico di Mazzini, si suicidò in carcere. Anche un altro tentativo di rivolta, organizzato in Savoia nel 1834, fallì miseramente. Fu allora che Giuseppe Garibaldi, che era tra i promotori, venne costretto alla fuga in America e condannato a morte in contumacia.
Mazzini nel 1834 aveva fondato, seppur con scarsi risultati, la “Giovine Europa”, che aveva lo scopo di radunare tutte le associazioni nazionali che lottavano per l'indipendenza. Negli anni successivi attraversò la cosiddetta “tempesta del dubbio”, vale a dire il rimorso per aver sacrificato inutilmente tante vite umane. Alla fine ne uscì convincendosi che il valore della causa italiana fosse superiore a quello delle singole vite. Dal 1837 visse a Londra, quasi in miseria.

I fratelli Bandiera
Un insuccesso che a Mazzini fu aspramente e ingiustamente rimproverato fu quello dei fratelli Attilio ed Emilio Bandiera nel 1844. I due fratelli erano ufficiali della marina austriaca e avevano aderito alle idee mazziniane. Partiti da Corfù dopo aver ricevuto notizia di una ribellione scoppiata a Cosenza, quando giunsero in Calabria scoprirono che il moto era ormai spento. Attirati in un tranello furono catturati e fucilati con altri sette compagni. Mazzini, come è stato dimostrato da alcune lettere intercettate dal governo di Vienna, dopo aver apprezzato il progetto, credendo che fosse meglio tentare di fare qualcosa e fallire piuttosto che non far nulla, aveva cambiato idea e cercato inutilmente di dissuadere i due fratelli dal loro proposito.

Intellettuali Moderati e Radicali
Gli insuccessi dei mazziniani aprirono uno spazio per le proposte alternative dei moderati, quei pensatori convinti che l'unità d'Italia fosse ottenibile senza ricorrere a violente rivoluzioni. Tra i moderati una delle figure principali fu quella di Vincenzo Gioberti, un sacerdote piemontese costretto all'esilio, che nel 1843 pubblicò a Bruxelles il saggio Del primato morale e civile e degli italiani in cui sosteneva che i sovrani italiani avrebbero dovuto accordarsi e creare una federazione di stati con a capo il papa. Per Gioberti gli Italiani dovevano ritenersi un gran popolo, malgrado tutte le divisioni. Egli considerava la tradizione cattolica come il collante che avrebbe potuto unire l'Italia senza ricorrere alla violenza. Questa dottrina venne così classificata come “neoguelfismo”. Il pensiero di Gioberti, limitato e chimerico, ignorava la rigidità della Chiesa del tempo, attribuendole forzatamente idee liberali e nazionalistiche che non le appartenevano. Al pari del popolo di Mazzini, la Chiesa di Gioberti era solo un vano desiderio.
Altra figura di spicco tra i moderati fu Cesare Balbo che sarebbe poi divenuto il primo presidente del governo piemontese nel ‘48. Nell’opera del 1844 Delle Speranze d’Italia espresse la convinzione che gli italiani non avrebbero mai rinunciato ai loro capoluoghi di provincia per una capitale nazionale. Anch'egli, come Gioberti, vedeva nella confederazione la forma migliore di unificazione, ma sarebbe stata possibile solo cacciando via gli austriaci. Ai Savoia sarebbe spettato il compito di strappare il lombardo-veneto all'Austria, possibilmente per via diplomatica, favorendo uno scambio di territori. L'Austria avrebbe dovuto cedere ai piemontesi le province del nord Italia in cambio di possedimenti nell’Europa orientale sottratti al claudicante impero ottomano. L'ipotesi di Balbo, anche se eticamente discutibile, dato che si proponeva di sostituire la servitù italiana con quella di altri popoli, era certamente più concreta e realistica della fumosa utopia di Gioberti.
Tra i liberal-radicali a vocazione repubblicana che si ispiravano alla tradizione illuminista milanese emerse la figura del lombardo Carlo Cattaneo, che era fautore di un sistema politico basato su una confederazione di stati italiani sul modello della Svizzera. Egli, tuttavia, considerava più importante l'esercizio delle libertà interne piuttosto che l’indipendenza da una potenza straniera. Cattaneo diffidava dei Savoia che governavano il Piemonte con metodi «aristocratici e preteschi». Le sue idee federaliste, sostenute nella rivista mensile Il Politecnico, erano improntate al liberalismo e al laicismo.
Nel 1845 fallì a Rimini, in Romagna, un'insurrezione di un centinaio di patrioti che, dopo aver colto di sorpresa la guarnigione pontificia, si erano impadroniti della città e avevano chiesto riforme politiche ed economiche. Il fallimento di questi piani insurrezionali segnò la crisi del modello rivoluzionario, aprendo l’uscio a una proposta alternativa.
I moderati, quindi, iniziarono a riporre molte speranze nel re di Sardegna Carlo Alberto che, a partire dal 1845, sembrava intenzionato a condurre un programma di unificazione nazionale. Sostenitore del progetto di Carlo Alberto fu lo scrittore e pittore Massimo D'Azeglio che, nel saggio Degli ultimi casi di Romagna, pur attribuendone la responsabilità al regime oppressivo del papa, condannò i moti di Rimini.

Viva Pio IX!
L’elezione al soglio pontificio di Pio IX dopo la morte del reazionario Gregorio XVI, nel 1846, sembrò coronare le speranze del neoguelfismo e dei riformatori moderati italiani. Lettore di Gioberti e di Balbo, di carattere aperto e sensibile alle manifestazioni di simpatia popolare, il cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti si presentò nei primi diciotto mesi del suo pontificato con una serie di iniziative che apparvero realmente innovative e che incontrarono un fortissimo desiderio di cambiamento, dando origine a grandi e illusorie speranze. Il grido «viva Pio IX!» diventò di moda. Il papa aveva attenuato la censura sulla stampa, aveva perdonato e liberato i prigionieri politici, aveva istituito una guardia civica a Roma che per i patrioti italiani costituiva il nucleo di un futuro esercito nazionale, e aveva creato una Consulta di stato (composta di soli laici) che aveva il compito di esprimere giudizi sulla politica pontificia.
Secondo Indro Montanelli il mito del papa liberale era «divampato per autocombustione, cioè dal desiderio ch'egli si mostrasse tale. Ma era così forte da suggestionare anche lui e tenerlo prigioniero». La nomina del cardinale Gizzi, la cui vocazione liberale era nota, a segretario di stato, fece apparire Pio IX come la personificazione del pontefice auspicato da Gioberti, pronto a unire l'Italia nel nome della Chiesa. L'illusione non avrebbe avuto vita lunga, ma ebbe il merito di creare un diffuso e vivace entusiasmo per l'idea di unificazione nazionale.

La Lega doganale italiana
Gli anni 1846-47, in gran parte dell'Europa e in quasi tutta l'Italia, furono caratterizzati da difficoltà economiche diffuse, dovute principalmente a cattivi raccolti con conseguente aumento del prezzo del grano. Sin dagli anni Trenta, in alcuni stati italiani come il Regno di Sardegna, il Regno delle due Sicilie e il Lombardo-Veneto, il rigido protezionismo era stato abbandonato per far posto a una riduzione delle tariffe doganali più elevate. Per iniziativa di Pio IX vide la luce, sull'esempio della Zollverein tedesca del 1834, la «Lega Doganale Italiana», un accordo che avrebbe permesso la libertà di commercio e di navigazione, oltre a una serie di esenzioni fiscali per i sudditi degli stati aderenti. L'accordo preliminare fu firmato a Torino il 3 novembre 1847 tra il Regno di Sardegna, il Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio. Pochi giorni dopo anche il duca di Modena Francesco V fu invitato ad aderire, dato che i suoi territori, che comprendevano Massa e Carrara, interrompevano la continuità tra la Toscana e il Regno di Sardegna. Il duca, però, a causa delle pressioni del governo austriaco, decise di non aderire al progetto che, anche a causa degli eventi rivoluzionari del 1848, fu definitivamente accantonato.



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