Il Risorgimento italiano - Parte seconda

Parte II
SCOPPIA UN '48
Lo Statuto Albertino
Nei primi mesi del 1848 gran parte dell'Europa occidentale fu sconvolta da furiosi moti rivoluzionari. In Italia non furono gli intellettuali ad accendere le polveri ma il popolo siciliano che, tormentato dalla fame e desideroso di rendersi indipendente da Napoli, mise in fuga le truppe borboniche e diede vita a un governo provvisorio.
Le proteste si estesero poi al napoletano, dove i liberali chiesero la costituzione. Ferdinando II, risentito per il mancato aiuto degli altri sovrani italiani, decise di concederla il 29 gennaio. I siciliani, però, rifiutarono la costituzione di Ferdinando e ne adottarono una più avanzata (la sovranità non risiedeva più nel re ma nei cittadini e il potere legislativo spettava interamente al Parlamento).
Per evitare rivolte interne, altri sovrani italiani seguirono l’esempio napoletano, e si affrettarono a concedere la costituzione nei propri territori: Leopoldo II di Toscana il 15 febbraio, Carlo Alberto il 4 marzo, Pio IX il 14 marzo e Carlo II di Parma il 29 marzo.
Carlo Alberto si servì di validi collaboratori nella formulazione dello Statuto. Si trattava di un’apertura al liberalismo e di un efficace compromesso tra la monarchia e la borghesia in ascesa. Pur trattandosi di una carta costretta dagli eventi e calata dall'alto, e non frutto della discussione di un'assemblea elettiva, lo statuto fu in grado di reggere al tempo. Pensato per un piccolo stato di 6 milioni di persone, fu successivamente esteso a tutta l'Italia e rimase in vigore sino alla fine della seconda guerra mondiale. Lo Statuto introduceva l'uguaglianza formale di tutti i cittadini di fronte alla legge, garantiva la libertà individuale e quella di stampa. Il potere esecutivo era affidato al re che lo esercitava attraverso i ministri, quello legislativo spettava a un parlamento bicamerale di cui solo la camera era elettiva, mentre i senatori venivano nominati dal re. Mancava la divisione dei poteri auspicata da Montesquieu, poiché anche i giudici erano scelti dal re. La religione cattolica era considerata religione di stato, mentre gli altri culti venivano tollerati. Il primo parlamento, su base censitaria e maschile, fu eletto il 27 aprile 1848.

L'Europa si infiamma
Il fenomeno rivoluzionario assunse carattere europeo quando i francesi, esasperati per la grave crisi economica dovuta ad un lungo periodo di carestia iniziato nel ‘46 a causa di cattivi raccolti granari e di una letale malattia della patata, cacciarono il re, Filippo D’Orlèans, e proclamarono la Repubblica.
L'aumento dei prezzi alimentari aveva causato vaste proteste e l'Austria, che guardava con sospetto alla situazione italiana, decise l'invio di truppe nella città pontificia di Ferrara, provocando le proteste del papa e di Carlo Alberto. In questo clima si ebbero molte manifestazioni popolari inneggianti a Pio IX. Violando gli accordi internazionali l'Austria aveva perso il diritto di appellarsi al «principio di legittimità» stabilito dal Congresso di Vienna.
Le riforme di Pio IX, Leopoldo II di Toscana e Carlo Alberto, avevano prodotto un aumento delle tensioni. Il primo gennaio, a Milano, iniziò uno sciopero del fumo che si estese subito ad altre città lombarde. Lo scopo era quello di infliggere perdite economiche all'Austria che deteneva il monopolio del tabacco
La notizia degli eventi francesi spinse i contadini tedeschi a ribellarsi agli anacronistici residui di feudalesimo che ancora vigevano in molte parti della Germania e l'insurrezione giunse in marzo a Berlino dove, a suffragio universale maschile, fu eletta una dieta (parlamento) democratica. Dopo molte incertezze il re concesse la costituzione che sarebbe rimasta in vigore fino al 1918. Il successivo parlamento federale insediatosi a Francoforte per unificare il paese si divise tra fautori di una Grande Germania (che comprendeva l'Austria) e di una Piccola Germania (senza l'Austria).
Anche a Vienna il popolo insorse e Metternich fu licenziato. Il nuovo imperatore Francesco Giuseppe concesse la costituzione e venne eletto un Parlamento privo di camera alta. Anche in Boemia e in Ungheria scoppiarono rivolte, ma in entrambi i casi furono successivamente soffocate.

Le cinque giornate di Milano e l'insurrezione di Venezia.
Tra il 18 e il 22 Marzo, alla notizia delle insurrezioni di Vienna, Praga e Bucarest, esplose la rabbia dei Milanesi, che, dopo cinque giornate di lotta, costrinsero le truppe austriache a lasciare la città per ritirarsi nelle fortezze del cosiddetto “quadrilatero” (Peschiera, Mantova, Verona, Legnago). In seguito si formò un governo provvisorio con a capo Gabrio Casati che pose il Consiglio di Guerra guidato da Carlo Cattaneo sotto la sua autorità. A causa delle intenzioni di Casati di chiedere aiuto a Carlo Alberto per sconfiggere definitivamente gli austriaci, Carlo Cattaneo, contrario a questa manovra per paura di compromettere l’autonomia della Lombardia, abbandonò la sua carica. Anche a Venezia, insorta il 17 Marzo contro il nemico austriaco, venne occupato l'arsenale e restaurata la Repubblica. Fu istituito un governo provvisorio presieduto da Daniele Manin, un patriota che, assieme a Nicolò Tommaseo, era stato appena liberato dal carcere in cui si trovava per la sua attività cospirativa. Il '48 diede dunque l'impressione che bastasse alzare la testa per mettere in fuga l'invasore. Ma era solo un impressione.

La prima guerra d'indipendenza
A fine Marzo, convinto che Dio lo avesse chiamato a guidare la causa italiana e sotto pressione per le richieste di aiuto giunte da Milano, anche se dubbioso per le gravi conseguenze in caso di sconfitta, Carlo Alberto dichiarò guerra all'Austria. Era un atto di estremo coraggio da parte del re, che in Europa era diplomaticamente isolato. Carlo Alberto si recò in Lombardia dove stavano arrivando molti volontari, soprattutto studenti, da varie parti d'Italia. Subito dopo l'arrivo del re, a Milano si allargò la spaccatura tra gli aristocratici che desideravano una fusione tra Piemonte e Lombardia sotto Carlo Alberto e i democratici, appartenenti quasi tutti alla classe media, favorevoli alla Repubblica. Questa divisione non avrebbe certo giovato alla causa italiana.
Anche a Roma, i liberali, chiesero al papa di intervenire. Sotto la guida del generale piemontese Durando, il 24 marzo, truppe pontificie lasciarono la capitale per raggiungere i confini dello stato. Pio IX, pur intimamente contrario alla guerra, aveva ancora una volta ceduto alle pressioni popolari e permesso la mobilitazione, ma col solo ordine di presidiare i confini, al fine di evitare che soldati austriaci sconfinassero per sfuggire ai piemontesi. Pur simpatizzando per la causa italiana, il pontefice non poteva permettere che si aggredissero gli austriaci in suo nome. Da Vienna arrivavano rapporti sempre più allarmanti sulla diffusione di opuscoli anti-romani nei quali si minacciava uno scisma. Il 29 aprile Pio IX prese la decisione, e davanti al Concistoro dei Cardinali pronunciò un’allocuzione in cui affermava di «non poter dichiarare guerra a una nazione i cui membri erano suoi figli spirituali». Egli si sentiva rappresentante di un Dio di pace e non intendeva schierarsi contro gli austriaci, protettori del cattolicesimo nell’Europa centrale. Il papa non poteva davvero desiderare l'unità d’Italia, che gli avrebbe tolto il potere temporale. Con l’allocuzione la favola del papa liberale si infranse per sempre. «Viva Pio IX!» divenne: «accidenti a Pio IX!». Con la rinuncia del papa anche gli altri sovrani richiamarono le loro truppe. L'ampia partecipazione popolare al processo risorgimentale era durata solo pochi mesi.
La guerra però continuò e il Regno di Sardegna ottenne alcuni parziali successi. La vittoria di Pastrengo (30 aprile) avrebbe potuto dar luogo all'occupazione di Verona, ma la mancata insurrezione della popolazione fece assumere al re un atteggiamento molto più cauto. La vittoria di Goito (30 maggio), favorita dal sacrificio dei volontari toscani e napoletani a Curtatone e Montanara che rallentò gli spostamenti degli austriaci, permise l'occupazione della città fortificata di Peschiera (31 maggio). L’entusiasmo dei patrioti aveva avuto la meglio sulla prudenza dei governi, ma il clima unitario fu di breve durata. Infatti Carlo Alberto, più che preoccuparsi di sconfiggere gli austriaci, parve interessato all’annessione di Milano mediante plebisciti. Questo atteggiamento produsse una lunga scia di sospetti e accuse che ruppero il clima di unità nazionale. I piemontesi, inoltre, non approfittarono del successo e concessero al nemico il tempo di riorganizzarsi. Anche a causa di un errore strategico di Carlo Alberto, quello di non chiudere i passi della Svizzera, gli austriaci riuscirono a passare e con la battaglia di Custoza del 25 luglio rovesciarono le sorti della prima guerra d'Indipendenza sconfiggendo pesantemente i Piemontesi e costringendoli a chiedere un armistizio. Carlo Alberto dovette abbandonare Milano e riguadare il Ticino. Il 9 agosto, a Vigevano, fu firmato l'armistizio (armistizio di Salasco) valido per sei settimane trascorse le quali avrebbe potuto essere «prorogato di comune accordo o denunciato otto giorni prima della ripresa delle ostilità». Garibaldi, rientrato dal sud America, non rispettò l'armistizio e, dopo il successo nella battaglia di Luino (15 agosto), fu sconfitto e costretto a fuggire in Svizzera.
La sconfitta di Custoza e l'improvvisa stipula dell’armistizio produssero nel 1848 una crisi dei moderati, che furono esautorati dal ruolo di guida del movimento indipendentista. L'alternativa mazziniana riprese vigore.

L'ora delle repubbliche
Nell’ottobre 1848, a causa di un minaccioso moto di protesta, il granduca Leopoldo II aveva abbandonato la Toscana. A Firenze, all'inizio del 1849, si era insediato un governo rivoluzionario presieduto da Giuseppe Montanelli, Francesco Domenico Guerrazzi e Giuseppe Mazzoni che proposero la convocazione di un'assemblea costituente italiana, rifiutando la fusione, inutilmente caldeggiata da Mazzini, con la neonata Repubblica Romana. Ancora una volta prevalsero i sospetti e le rivalità tra le città, l'atavico provincialismo italiano costituiva un potente ostacolo per l'unificazione. Ad ogni modo, la Repubblica fiorentina non durò a lungo. Nel mese di maggio gli austriaci occuparono Firenze e nel luglio Leopoldo era di nuovo sul trono.
A Roma, nel novembre, era stato assassinato il capo del governo pontificio Pellegrino Rossi e Pio IX aveva preferito rifugiarsi a Gaeta e chiedere l’aiuto delle potenze europee. In una situazione di grave incertezza, la camera nominò una “Giunta di Stato” che sciolse il Parlamento e indisse le elezioni, a suffragio universale maschile, di un'assemblea costituente. Mazzini colse l'inaspettata occasione, abbandonò il suo rifugio svizzero e si recò a Roma. Nel febbraio 1849 l'assemblea dichiarò la fine del potere temporale del papa e nominò un triumvirato composto da Giuseppe Mazzini, Carlo Armellini e Aurelio Saffi per il governo della città. Nacque così la “Repubblica Romana”.
Intanto in Francia era stato eletto presidente della repubblica Luigi Napoleone Bonaparte, nipote di Napoleone I. Luigi Napoleone, per mantenere l'appoggio dei cattolici aveva deciso di restaurare il potere del papa. Dopo aver occupato Civitavecchia, i francesi sferrarono un attacco contro i volontari repubblicani che difendevano Roma, ma vennero respinti dagli uomini di Garibaldi, che era stato chiamato a Roma da Mazzini dopo che Carlo Alberto aveva rifiutato di arruolarlo nell’esercito piemontese. Garibaldi non aveva il comando supremo dell'esercito della Repubblica Romana, e si mostrava restio ad obbedire agli ordini dei superiori.
Nel luglio del ’49 l'assemblea repubblicana giudicò impossibile ogni resistenza e decise la resa. Garibaldi invitò tutti coloro che volevano continuare a lottare a seguirlo nel tentativo di prestare aiuto a Venezia che non si era ancora arresa. I garibaldini però non giunsero mai a Venezia e dopo numerose defezioni si fermarono a San Marino, dove Garibaldi sciolse il suo piccolo esercito. Fu allora che, dopo che Garibaldi aveva fallito il tentativo di raggiugere Venezia coi pochissimi uomini rimastigli, durante la fuga trovò la morte Anita Garibaldi, moglie dell'eroe, figura quasi leggendaria nel Risorgimento italiano, immagine ideale di una guerriera tutrice dei diritti dei popoli.
Garibaldi venne poi arrestato al suo arrivo a Genova. Intanto, a Roma, i triumviri, prima di lasciare la città ai francesi, promulgarono la Costituzione più moderna, più laica e più democratica fra quelle elaborate fino ad allora. Sotto molti aspetti anticipava i contenuti della Costituzione Italiana attuale.

La fine di Carlo Alberto
Pochi giorni dopo la proclamazione della Repubblica Romana, il 12 marzo 1949 il governo sabaudo guidato dal generale Chiodo si trovava in una posizione molto critica. Il parlamento, a maggioranza liberale, aveva esercitato forti pressioni sul re e sul capo del governo al fine di riprendere la guerra. Chiodo, alla fine, cedette alle insistenti richieste e, in accordo col re, dichiarò rotto l’armistizio. La conquista di Milano avrebbe permesso un'annessione secca della città, senza discussioni e obiezioni da parte dei milanesi. Il 20 Marzo, però, la guerra iniziò molto male con gli austriaci che sfondarono le difese piemontesi presso Mortara. Tre giorni dopo giunse la fatale sconfitta di Novara.
La battaglia costò alcune migliaia di uomini per parte tra morti, feriti, prigionieri e dispersi. Per giustificare la sconfitta si indicò nel generale Ramorino, che fu condannato a morte, il capro espiatorio. In verità le responsabilità erano molto più estese e coinvolgevano sia il generale polacco Chrzanowski, troppo prudente e scarso conoscitore del territorio, sia l'intera struttura dell'esercito sardo, i cui quadri dirigenti erano stati scelti con criteri nepotistici e completo disprezzo del merito. Gravi responsabilità pesavano anche sulla maggioranza della camera che aveva scioccamente preteso la ripresa della guerra, illudendosi che l'eroismo sarebbe bastato a generare la vittoria.

La sera stessa della sconfitta, Carlo Alberto abdicò a favore del figlio Vittorio Emanuele II, e si ritirò in esilio a Oporto in Portogallo dove, malato e spossato dalle fatiche della guerra, morì il 18 luglio. Vittorio Emanuele II firmò l’armistizio di Vignale. Si disse allora che il re avrebbe rifiutato sdegnosamente la proposta del maresciallo Radetzky di un ingrandimento del suo Stato in cambio dell'abrogazione dello Statuto Albertino. Nacque così, abilmente diffusa da Massimo D'Azeglio, la leggenda del «re galantuomo». In verità fu proprio Radetzky a chiedere al re di mantenere lo statuto, per timore che la sua sopressione avrebbe rafforzato le spinte rivoluzionarie. L'armistizio impegnava il re a iniziare al più presto trattative di pace.

Venezia si arrende. Genova si ribella.
La Repubblica di Venezia era assediata per mare e per terra, sottoposta a più di due mesi di bombardamenti (allo scopo erano stati anche usati per la prima volta, anche se con scarso successo, dei palloni aerostatici). Difesa ormai solo da veneziani, ad eccezione di alcuni ufficiali napoletani e lombardi, Venezia, flagellata dalla fame e dal colera, fu costretta alla resa il 23 agosto 1849.
Il 27 marzo a Genova arrivò la notizia della grave sconfitta dell'esercito di Carlo Alberto e i repubblicani, numerosi in una città che era stata repubblica sino al 1815, organizzarono una rivolta nella speranza di ottenere l'indipendenza dal Regno di Sardegna. Tra il 4 e il 9 aprile l'esercito sardo-piemontese attaccò la città costringendola, anche col ricorso a brutali bombardamenti, alla resa.
In Piemonte Vittorio Emanuele II sciolse il parlamento rieletto pochi mesi prima perché, dominato dai democratici, non intendeva ratificare la pace di Milano (6 agosto 1849). Quest'ultima prevedeva 75 milioni di lire di indennizzo e una temporanea occupazione austriaca nelle sue province orientali (una specie di "zona cuscinetto"). Il re, inoltre, “invitò” i sudditi a eleggere parlamentari meno intransigenti (proclama di Moncalieri – 20 novembre), prefigurando, in caso contrario, gravi e pericolosi disordini. Il governo riuscì, con metodi più o meno legali, a orientare nel senso desiderato dal re il voto degli elettori. Il nuovo parlamento, eletto il 10 dicembre, ratificò finalmente la pace.

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