Il Risorgimento italiano - Parte quinta

I PROBLEMI DELL’ITALIA POST-UNITARIA
Cavour moriva il 5 giugno 1861, proprio nel momento in cui il paese stava emettendo i primi vagiti e l'abilità del conte sarebbe stata preziosa per affrontare con successo i gravi problemi della nazione. Il nuovo parlamento italiano uscito dalle elezioni del febbraio del 1861 aveva sede a Torino, la capitale.
La maggioranza dei parlamentari faceva parte della Destra“storica” guidata dagli uomini che avevano raccolto l’eredità di Cavour, come Alfonso La Marmora, Urbano Rattazzi (che nel tempo era divenuto un autentico paladino del re, scostandosi dal centro-sinistra), Marco Minghetti e Bettino Ricasoli. La destra, che avrebbe governato sino al 1876, era a favore di una società elitaria in cui il diritto di voto fosse concesso solo ai più ricchi e colti, e sosteneva una politica liberale e liberista.
All'opposizione sedeva la Sinistra, formata da liberali democratici come Agostino Depretis, Francesco Crispi e Benedetto Cairoli, favorevoli ad un allargamento della partecipazione popolare alla vita politica della nazione.
Al decentramento si preferì, per timore delle spinte eversive, l’accentramento amministrativo. Lo Statuto Albertino e la legislazione piemontese furono estesi a tutto il regno, senza alcuna considerazione delle leggi precedenti che erano talvolta migliori. L’Italia fu ripartita in 59 province, a capo delle quali fu posto un prefetto nominato dal re quale rappresentante del governo. L’esercito fu riorganizzato sulla base della coscrizione obbligatoria: gli ex ufficiali borbonici e una parte di quelli garibaldini (appena un sesto) furono immessi nelle sue fila.

Il Brigantaggio
All’indomani dell’unità il governo dovette affrontare il grave fenomeno del brigantaggio. L’impietosa fiscalità (il sud era abituato a sole 5 imposte che con l'unificazione divennero 22), la leva obbligatoria (5 anni per la fanteria, 6 per i bersaglieri) e la mancata distribuzione di terre ai contadini avevano accresciuto l’impopolarità del governo e del re. L'economia del sud era stata fortemente danneggiata dall'annessione. Le numerose aziende napoletane che vivevano in larga parte di commesse pubbliche non sopravvissero al regime liberista. I licenziamenti si moltiplicarono e molti lavoratori si ritrovarono disoccupati. La Banca Nazionale del Regno d'Italia, che aveva sede in Piemonte, poté aprire filiali al sud, mentre al Banco di Napoli fu vietato allargarsi al nord (Di Fiore, 2007, pp. 186, 187). Il sud, guardato con disprezzo, fu trattato come una qualsiasi preda di guerra e completamente asservito agli interessi economici del nord. Ai soldati borbonici prigionieri di una guerra mai dichiarata venne chiesto di servire per l'esercito italiano. Quelli che si rifiutavano venivano rinchiusi, a mezza razione, coperti di cenci di tela a morire a in gelidi carceri alpini come quello di Fenestrelle (Di Fiore, 2007, pp. 177).
Così, molti contadini incominciarono a brandire le armi e a darsi alla macchia, ad assalire fattorie e posti di polizia, a razziare bestiame, a rapire i possidenti borghesi per farsi pagare ingenti riscatti, fino a muovere una sanguinosa guerriglia contro reparti dell’esercito. A rimpolpare le fila dei briganti si erano aggiunti molti ex garibaldini che erano stati congedati dall’esercito e giovani disertori alla leva obbligatoria (solo un giovane su quattro aveva risposto alla chiamata di leva).
Il Brigantaggio al sud non era un fenomeno nuovo, ma all'indomani dell'unità era diventato talmente grave e diffuso da spingere il governo ad impiegare l’esercito per debellarlo. Si trattava di una ribellione sociale che però, almeno all'inizio, aveva assunto anche i caratteri di una rivendicazione politica e religiosa. I briganti provenivano in genere dal popolo, di cui condividevano la semplicità e una certa rozzezza di pensiero. Affezionati a una religiosità superstiziosa, amalgamavano la violenza più spietata al culto dei santi.
Molti nobili di diversa nazionalità partirono da Roma dopo aver promesso all'ex regina Maria Sofia che avrebbero fatto tutto il possibile per farle riavere il trono. Questo permise al governo italiano di accusare l’ex re di Napoli e il papa di aver causato la ribellione dei contadini per riconquistare i poteri perduti.
Il deputato napoletano Massari, dopo aver studiato il fenomeno, aveva fornito al parlamento una relazione che indicava nella povertà e nell’arretratezza le cause profonde di questa ribellione violenta. Ogni responsabilità del nuovo stato era però taciuta. L'ipotesi della redistribuzione delle terre non fu nemmeno presa in considerazione, per non inimicarsi la classe dei latifondisti. Con le leggi Pica (1863) si affidarono i processi dei briganti alla corte marziale, con buona pace dello Statuto Albertino che all'art. 75 vietava la creazione di tribunali speciali. La repressione fu attuata nel modo più feroce. In molti casi vennero fucilati anche i ricercati che si consegnavano spontaneamente. Le condanne a morte erano pressoché quotidiane e non risparmiavano i minorenni. Molti venivano arrestati con la sola colpa di essere parenti dei briganti. (Guerri, 2010, p. 219, Fasanella - Grippo, p.207)
Il bilancio dei morti fu pesantissimo: morirono più uomini in questa campagna che nelle tre guerre d’indipendenza messe assieme. Secondo le stime dello storico Roberto Martucci (L'Invenzione dell'Italia Unita), tra il 1861 e il 1870, tra briganti e soldati, i morti sarebbero tra i 20 e i 60 mila. Il fenomeno del brigantaggio si ridusse gradualmente dopo il 1865, e dopo il 1870 era quasi scomparso.
Il metodo colonialista con cui il sud era stato trattato avrebbe lasciato gravi strascichi. Era stata scavata una grave frattura tra il nord e il sud del paese e l'economia del sud era stata scardinata. L'unica speranza per i poveri del meridione era l'emigrazione. Si calcola che tra il 1880 e la prima guerra mondiale siano emigrati in America circa 8 milioni di italiani, di cui 5 milioni e mezzo meridionali.

Il problema finanziario
Poco prima dell’unificazione il bilancio di tutti gli stati italiani era in rosso e quindi, in seguito all’unificazione politica, anche il debito fu unificato. Il nuovo stato voleva garantirsi la fedeltà dei creditori. Per colmare il disavanzo furono vendute grosse quantità di beni demaniali strappati alla Chiesa e furono istituite nuove tasse indirette, come quella sul macinato (proposta nel 1868 dal ministro Quintino Sella). Quest’ultima colpiva le classi più povere perché veniva pagata direttamente al mugnaio che acquistava il grano. La tassa provocò un forte aumento del prezzo del pane e suscitò, in tutto il paese, una lunga serie di tumulti che le forze dell’ordine repressero con ferocia (Viola, 2000, pp.216-217).
Il pareggio del bilancio, annunciato nel marzo 1876 dal presidente del Consiglio Marco Minghetti, permetteva allo stato di ridurre l'entità del debito pubblico. I capitali, anziché venire investiti in titoli di stato, potevano essere dirottati verso impieghi produttivi. Purtroppo l'elevata tassazione costituiva un freno per lo sviluppo del mercato interno, che restò sostanzialmente asfittico.

La terza guerra d'indipendenza
Nel 1866 la Prussia, procuratasi la neutralità della Francia e l’alleanza militare dell’Italia, alla quale fu promesso il Veneto, dichiarò guerra all’Austria, sua rivale per il predominio sugli stati tedeschi. Scoppiò quindi quella che in Italia chiamiamo la «terza guerra d'indipendenza».
Il governo austriaco propose la cessione del Veneto in cambio della neutralità italiana ma il generale La Marmora, sicuro della vittoria del suo esercito, molto più numeroso di quello austriaco, rifiutò l'offerta. In realtà l'esercito italiano, composto da soldati poco addestrati e comandato da generali litigiosi, avidi di carriera e ostinatamente divisi su ogni questione, era potente solo sulla carta. Il re non era riuscito a indicare un comandante supremo, creando una specie di gelosa diarchia tra La Marmora e Cialdini. Le basi per la sconfitta erano state ben costruite.
Lo scontro con gli austriaci avvenne il 24 giugno, nei pressi di Custoza, come nella guerra del 1848. L'esercito italiano era stato disposto su un fronte troppo lungo, l'artiglieria era inadeguata e le informazioni sui movimenti dei nemici erano esigue. Così La Marmora si trovò di fronte il grosso dell'esercito nemico e, preso dal panico, comandò la ritirata. Anche il generale Cialdini, saputo della sconfitta del collega, iniziò ad arretrare. Un esercito che era almeno il doppio di quello austriaco era stato costretto inverosimilmente a indietreggiare (Pinto, pp.421-22). Per fortuna dell'Italia l'esercito prussiano, il 3 luglio, sconfisse nettamente quello austriaco nella battaglia di Sadowa (oggi nella Repubblica Ceca). Questo impedì agli austriaci di organizzare una penetrazione nella pianura padana.
Anche in mare l'esitante ammiraglio Persano, costretto dal ministro della marina Depretis a ingaggiare battaglia, fu rovinosamente sconfitto, il 20 luglio, nella Battaglia di Lissa, un isola vicina alle coste della Dalmazia. La marina italiana perse due corazzate e settecento marinai. Solo Garibaldi, alla guida di 38 mila volontari, riuscì, penetrando nel Trentino, a sconfiggere gli Austriaci nella battaglia di Bezzecca il 21 luglio. Fu allora che, mentre si preparava a liberare Trento, al generale giunse l'ordine di La Marmora di sgomberare il Trentino, a cui rispose con un laconico telegramma: “obbedisco”. La vittoria di Garibaldi confermava «negli italiani l'idea che le capacità individuali, l'arrangiarsi del singolo valgono più di qualsiasi cosa organizzata dallo Stato» (Guerri, 1997, p.228).
Il governo prussiano mantenne la sua promessa e costrinse l’Austria a cedere il Veneto a Napoleone III che, come aveva fatto per la Lombardia, lo girò all'Italia. Mazzini scrisse che Napoleone buttò il Veneto all'Italia «così come si butta a un mendicante una moneta da un penny» (cit. in Mack Smith, 1993, p.250 ). Il 21 ottobre, a seguito del solito plebiscito, il Veneto entrava ufficialmente a far parte dell’Italia.

La questione di Roma capitale
La liberazione di Roma, che era stata già designata da Cavour come capitale del regno, comportava la soluzione di delicati problemi internazionali e richiedeva il definitivo abbattimento del potere temporale del papa. Ovviamente un tale progetto avrebbe suscitato la netta opposizione di tutti gli stati cattolici. In uno dei suoi discorsi Cavour aveva pronunciato il famoso slogan “libera chiesa in libero stato”, intendendo che il papa avrebbe dovuto rinunciare spontaneamente al potere temporale per occuparsi soltanto delle questioni spirituali. Pio IX, tuttavia, quando era stato eletto, aveva giurato di difendere il potere temporale e quindi non poteva rinunciarvi. Cavour, con la sua solita spregiudicatezza, cercò allora di corrompere alcuni alti prelati affinché convincessero il papa. Come abbiamo già visto, però, la morte lo colse di sorpresa e i suoi successori, a cominciare dal toscano Bettino Ricasoli (soprannominato il “barone di ferro”) non riuscirono, per mancanza di tatto e di diplomazia, a compiere alcun progresso verso l’ambita meta.

Garibaldi ferito sull'Aspromonte
Nel 1862 il nuovo capo del governo Rattazzi fu protagonista di un goffo tentativo di utilizzare Garibaldi per la conquista di Roma. Garibaldi aveva organizzato una specie di “seconda spedizione dei mille” e si era recato in Sicilia con l'intento di marciare sino a Roma per deporre il papa. “O Roma o morte” era il suo motto. Rattazzi non fece nulla per fermare i garibaldini, accolti con entusiasmo dai siciliani. Di fronte alle minacciose rimostranze di Napoleone III, però, fu costretto ad inviare l’esercito nel sud Italia. Quando le truppe italiane incontrarono quelle dei garibaldini sulle montagne dell’Aspromonte, Garibaldi si piazzò in bell'evidenza, con la camicia rossa e il poncho grigio, convinto che i soldati italiani non avrebbero aperto il fuoco. I bersaglieri, invece, avanzarono e spararono. Il conflitto a fuoco durò circa dieci minuti; morirono cinque garibaldini e sette regolari. Garibaldi, ferito a una coscia e a un piede, accettò la resa. Qualche giorno dopo fu sbarcato a La Spezia e imprigionato nel forte del Varignano.

Firenze capitale e il Sillabo
Il successore di Urbano Rattazzi, Marco Minghetti, nel 1864 si accordò con la Francia e firmò la cosiddetta Convenzione di settembre: la Francia s’impegnava a ritirare le sue truppe da Roma entro due anni e il governo italiano assicurava la protezione dello Stato Pontificio da qualsiasi attacco esterno. A garanzia della sua rinuncia a Roma, la capitale fu portata da Torino a Firenze (1865), questa decisione non fece molto piacere ai torinesi che espressero il loro dissenso con violente manifestazioni a cui la polizia rispose con feroci repressioni.
Intanto Pio IX si era fatto sempre più intransigente e, l'8 dicembre del 1864, aveva scritto un’enciclica intitolata “Quanta Cura” a cui era allegato Il Sillabo, un durissimo documento nel quale erano elencati e condannati gli “errori” della civiltà moderna, fra i quali comparivano il razionalismo, il laicismo, il nazionalismo, la democrazia, il socialismo, l’intervento dello Stato nelle questioni morali e religiose. Il Sillabo isolava la Chiesa dal mondo. «Non era il tentativo di riportare la Chiesa e i cattolici alla purezza originaria, come molti vollero credere, ma una spinta all'assolutismo fanatico» (Guerri, 1997, p.233).

La sconfitta di Mentana
Nell’autunno del 1867 Garibaldi stava progettando nuovamente la presa di Roma. Il piano di Garibaldi e dei suoi collaboratori prevedeva l'accensione di un’insurrezione nel Lazio e nella città di Roma, perché questo avrebbe permesso di superare le convenzioni di settembre e procedere all'occupazione dello stato pontificio senza violare la parola data. Il capo del governo Rattazzi, dopo aver ricevuto esplicite minacce di intervento dalla Francia, aveva rinunciato all'incarico ed era stato sostituito dal generale Luigi Menabrea. Anche il nuovo capo del governo ebbe un atteggiamento ipocrita, e si limitò a convincere il re a esprimere un giudizio di condanna dell'aggressione. Garibaldi e i suoi 8 mila volontari iniziarono ad avvicinarsi a Roma, mentre una parte dei suoi uomini si trovava già in città con l'intento di incitare il popolo all'insurrezione. I garibaldini realizzarono un attentato in una caserma (oggi si chiamerebbe terrorismo), ma nessun romano si mosse. I fratelli Enrico e Giovanni Cairoli vennero sopraffatti dagli zuavi del papa presso Villa Glori. Napoleone III, informato del complotto, inviò in Italia nove mila soldati dotati di fucili «chassepot» a retrocarica ad aiutare l'esercito del papa. Dopo aver conquistato Monterotondo, il 3 novembre 1867, Garibaldi fu sconfitto pesantemente da un esercito di papalini rinforzati da alcune migliaia di francesi nella battaglia di Mentana. Il papa era riuscito a prendere tempo, ma nel giro di appena tre anni la storia avrebbe compiuto il suo inesorabile corso.

La Breccia di Porta Pia
Nonostante la schiacciante vittoria nella guerra del 1866, la Prussia non aveva potuto riunire attorno a sé tutti gli stati tedeschi perché Napoleone III si sarebbe opposto. Quattro anni dopo, però, scoppiò la guerra franco-prussiana. Fu la Francia, cadendo in un tranello del cancelliere Bismarck, a dichiarare aperte le ostilità. Lo scontro fu breve e per la Francia si rivelò un disastro. Napoleone, sconfitto a Sedan, fu catturato, e in Francia fu proclamata la Terza Repubblica. Il governo italiano si ritenne sciolto dagli impegni assunti con la Convenzione di settembre e decise di risolvere la questione romana una volta per tutte. Il papa rifiutò ogni trattativa e così, il 20 settembre 1870, un corpo di bersaglieri, aprendo una breccia nelle mura presso Porta Pia, occupò la città quasi senza incontrare resistenza. Il papa, contrario ad ogni spargimento di sangue, aveva dato precise disposizioni al generale Kanzler: la difesa doveva essere poco più che simbolica. Egli intendeva semplicemente mostrare al mondo che stava subendo un abuso (Di Fiore, pp.351). Il papa si rifugiò in Vaticano e, dopo aver sospeso il Concilio Vaticano I (iniziato l'8 dicembre 1869), scomunicò tutti i responsabili dell'occupazione di Roma. Nel 1871, proclamata Roma capitale, lo stato italiano volle regolare, con la cosiddetta legge delle guarentigie (garanzie), i rapporti con la Santa Sede. L’Italia si impegnava a garantire l’inviolabilità e la libertà del papa e gli assegnava un’indennità annua di tre milioni di lire annui per la perdita del suo stato. Pio IX, però, rifiutò con sdegno questa legge e non volle accettare alcuna indennità. In una disposizione del 1874 chiamata Non Expedit proibì ai cattolici di partecipare alla vita politica italiana.  Egli si dichiarò priginiero dello stato italiano e si rifiutò di metter piede al di fuori del territorio vaticano. Sino al 1929 anche i suoi successori avrebbero seguito il suo esempio.

L’Italia pagò l’annessione di Roma con l’isolamento diplomatico, che durò sino al 1882, quando sarebbe entrata a far parte della triplice alleanza con Prussia e Austria.

L'Italia è fatta. Mancano gli italiani
Il 10 marzo del 1872 moriva a Pisa “George Brown”. Gli studenti realizzarono manifestazioni in suo onore, alcuni medici tentarono di imbalsamarne il corpo. Il parlamento votò una dichiarazione di condoglianze, ma nessun deputato pronunciò una sola parola di omaggio (Mack Smith, 1993, pp.316-317). Il dottor Brown non era altri che Giuseppe Mazzini, rientrato in incognito in Italia il mese prima, ospite della famiglia Nathan-Rosselli, ancora ricercato come un pericoloso criminale. Dopo la presa di Roma gli artigli della morte avevano iniziato a ghermire gli ultimi grandi protagonisti del Risorgimento ancora in vita. Nel 1878 erano morti anche Pio IX e Vittorio Emanuele; Garibaldi nel 1882. La storia voltava pagina e una nuova epoca faceva capolino.
L'unità d'Italia era dunque completata, anche se Trento e Trieste sarebbero diventate italiane solo nel 1918. Il nuovo stato nasceva fragile sia culturalmente, sia economicamente. La povertà era così diffusa e grave che oggi si fa fatica persino a immaginarla. Un operaio guadagnava circa 1,30 lire al giorno e un chilo di pane costava 0,25 lire!
L’Italia era, nella sostanza, un paese bisognoso e arretrato: le infrastrutture erano insufficienti, il sistema scolastico, quello sanitario e quello amministrativo erano inefficienti; 17 milioni di italiani su 23 erano analfabeti, solo 9 su 1000 superavano le elementari. L’agricoltura, soprattutto al sud, aveva caratteristiche semifeudali. L’industria era poco diffusa e scarsamente competitiva con quella degli altri paesi europei (Guerri, 1997, p.225).
Tutto era stato uniformato: monete, pesi, misure, ma le antiche differenze non erano scomparse nel nulla. Nel nord erano diffusi il capitalismo agrario e l'industria tessile; nel centro la mezzadria (il contadino cedeva al proprietario della terra la metà dei prodotti coltivati); nel sud e nelle isole prevaleva il sistema latifondista, anche se esistevano sacche di agricoltura di pregio come, per esempio, agrumi, viti, olive. La piccola azienda a conduzione familiare volta all'autoconsumo era diffusa su tutto il territorio.
La nascita di alcuni importanti impianti nel settore metallurgico, meccanico e chimico non cambiò di molto la situazione generale. L’Italia unita era guidata da un'èlite di notabili. Le masse erano escluse dalla partecipazione alle decisioni politiche. Il diritto di voto era ristretto a una minoranza di possidenti e di persone istruite. Nel 1861 era riconosciuto a meno del 2% dei circa 22 milioni di italiani. Votavano i maschi che avevano compiuto 25 anni e che pagavano almeno 40 lire di imposte annue. Alcune categorie votavano indipendentemente dal reddito. Tra queste c'erano gli impiegati statali, gli insegnanti, i ragionieri e i farmacisti. Il voto era impedito, oltre che alle donne e ai minori, anche agli analfabeti, agli interdetti, ai falliti, e a varie categorie di condannati.
L’Italia unita presentava una serie di problemi molto gravi che la destra storica, per la sua formazione ideologica, per la sua indifferenza verso i problemi della società civile, non avrebbe potuto risolvere. L’onere di proporre le riforme necessarie ad affrontare alcuni dei problemi della nuova nazione sarebbe stato assunto dalla sinistra, giunta al governo nel 1876.
Alcune difficoltà però persistono tuttora. La più grave è naturalmente, la frattura tra il nord e il sud. Il sud è sempre stato visto, dall'unità in poi, prima come una terra di conquista, poi come un malato da curare o come un barbaro da redimere.
Il divario col nord si accrebbe rapidamente. Nei decenni successivi all'unità gli investimenti per le infrastrutture furono concentrati quasi essenzialmente al nord, dove nacquero le prime grandi industrie come la Pirelli (1880), la Montecatini (1888) e la Fiat (1899). Dal 1862 al 1897 lo stato spese 458 milioni di lire, provenienti in gran parte dai contribuenti del sud, per la bonifica delle paludi. Per il centro-nord furono spesi 455 milioni e 3 al sud. (Guerri, 2010, p.249)
Come è noto, l'assistenzialismo pelosamente filantropico, quello dei finanziamenti a pioggia, non ha di certo risolto i problemi. L'ipotesi del federalismo, scartata all'inizio dell'unità ha assunto oggi l'aspetto di un'imposizione voluta dalle regioni del nord. Le contrapposizioni persistono pericolosamente ancora oggi.
Quale sarà il futuro dell'Italia in un mondo sempre più concatenato e complesso? Potrà mantenere un suo specifico spazio e offrire un contributo positivo? Manterrà la sua identità, oppure l'egoismo locale prevarrà sulla concordia? I difetti di una nascita faticosa giocheranno senz'altro un ruolo nel futuro incerto della nostra nazione.

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