Il Risorgimento italiano - Parte quarta

Parte quarta
La II guerra d’indipendenza
I primi giorni di guerra furono i più rischiosi per il Regno di Sardegna. L'esercito sardo contava circa 60 mila uomini e non era ancora affiancato da quello francese. L'armata austriaca contava 150 mila soldati, ma era guidata dall'irresoluto maresciallo Gyulai  che non seppe sfruttare il vantaggio iniziale.
Invece di puntare direttamente su Torino marciò su e giù nella pianura padana dando tempo ai nemici di organizzarsi. I francesi rispettarono i patti e, nell'arco di qualche settimana, portarono oltre 100 mila soldati al fronte. Nel giugno 1859 la parte più piccola dell’esercito franco-piemontese, i cacciatori delle alpi guidati da Garibaldi, combatté nella Lombardia del nord, nella zona dei laghi, occupando Bergamo e Brescia. Il contingente francese comandato da Napoleone III e affiancato dai sardo-piemontesi vinse la battaglia di Magenta (4 giugno) e occupò Milano. Anche negli scontri di Solferino e San Martino (24 giugno), in cui combatterono più soldati (circa 225 mila) che a Waterloo, gli austriaci furono sconfitti grazie alle copiose forze transalpine. Come a Magenta il mancato inseguimento del nemico in rotta rese la vittoria incompleta.
L'esercito austriaco non era stato annientato e attendeva gli eventi ben protetto dal quadrilatero di fortificazioni costituito dalle città di Mantova, Verona, Peschiera e Legnago. I francesi, impegnati nella zone di Solferino patirono mille e seicento morti e 8 mila e cinquecento feriti, i piemontesi ottocentosettanta morti, quasi 4 mila feriti e oltre settecentocinquanta dispersi o prigionieri. Le perdite austriache erano state di poco superiori a quelle di piemontesi e francesi messe assieme (Pieri, 2003, p.619) Considerando che morì circa la metà dei feriti e che molti tra i dispersi erano morti, è chiaro che a Solferino la guerra aveva assunto i toni più crudeli.
Quando la conquista del Veneto sembrava ormai alla portata, l'8 luglio Napoleone III propose un armistizio con gli austriaci.

Le insurrezioni nell'Italia centrale
Allo scoppio delle ostilità, e soprattutto dopo la vittoria di Magenta, la rivoluzione a lungo preparata dalla Società nazionale italiana (quindi non esattamente “spontanea”) era esplosa in Toscana, a Parma, a Modena, dove furono cacciati i principi regnanti. Anche a Bologna e nelle Legazioni erano avvenute delle sollevazioni e le autorità Pontificie erano state allontanate. Per raggiungere il risultato il governo di Cavour aveva utilizzato ogni mezzo, compresa la corruzione di alti ufficiali. In tutti i territori liberati i comitati organizzati dai filo-piemontesi offrirono la corona a Vittorio Emanuele II.

L'armistizio di Villafranca
Per Napoleone III quella di Solferino fu una vittoria amara. Il gran numero di francesi morti e mutilati lo aveva profondamente scosso. La sua decisione di chiedere l'armistizio ebbe, tuttavia, altre profonde ragioni. Egli si era reso conto che Cavour aveva agito, impegnandosi a suscitare le ribellioni dell'Italia centrale, in dispregio dei patti. Ormai la guerra non rispondeva più ai suoi interessi, dato che la Francia non avrebbe potuto controllare l'Italia centrale. Le spese di guerra erano state grandi e il Piemonte non sembrava in grado di pagarle. Napoleone temeva, inoltre, un intervento della Prussia, che aveva mobilitato un esercito di 300 mila soldati sulla linea del Reno. Dopo aver avvisato Vittorio Emanuele II, che si disse d'accordo e che non si preoccupò di avvisare Cavour, l'imperatore dei francesi incontrò Francesco Giuseppe a Villafranca, vicino a Verona, per firmare un armistizio (11 luglio). La Lombardia (senza Mantova) sarebbe stata ceduta a Napoleone che l'avrebbe ceduta al Regno di Sardegna, mentre nell'Italia centrale sarebbero stati restaurati i vecchi sovrani, senza ricorso alla violenza (Pinto, 2003, pp.304 -305).
Vittorio Emanuele Il era soddisfatto dell'estensione del suo Regno, mentre Cavour, non potendo tollerare che il Veneto restasse austriaco e che avrebbe fatto parte della confederazione italiana, ebbe un violento scatto d'ira e rassegnò le dimissioni. Secondo il Mack Smith, il conte avrebbe voluto continuare la guerra anche senza l'aiuto della Francia (Mack Smith, 1996, p.197). Sembra però più credibile l'interpretazione fornita da Paolo Pinto, secondo il quale Cavour non era affatto uscito di senno. Egli aveva suggerito a Vittorio Emanuele di ritirarsi dietro il Ticino e rifiutare il consenso all'accordo. Napoleone, dopo tutto il lavoro svolto, non avrebbe potuto lasciare la Lombardia all'Austria, ma neanche tenerla per sé senza suscitare il risentimento degli altri stati europei. Avrebbe dovuto comunque consegnarla ai piemontesi. Forse il Regno di Sardegna avrebbe trovato altre alleanze per conquistare il Veneto. Secondo Cavour, per riaffermare il carattere nazionale del progetto che si voleva realizzare, era necessario legare l'acquisizione della Lombardia a quella del Veneto (Pinto, 2003, pp.309 -310).

L'annessione della Toscana e dell'Emilia-Romagna.
Dopo l'armistizio di Villafranca, Vittorio Emanuele II aveva sostituito Cavour col generale Alfonso La Marmora, molto più disponibile (un generale dell'esercito doveva obbedienza al re) ad assecondare le sue decisioni. Il sovrano era felice di essersi liberato di Cavour, dato che i rapporti tra i due si erano ormai deteriorati. Nei sei mesi successivi il parlamento non fu mai convocato.
L’armistizio di Villafranca prevedeva il rientro dei legittimi sovrani negli stati dell'Italia centrale, ma i governi provvisori filo-piemontesi continuavano ad opporsi. La Marmora non sapeva come risolvere la situazione e il re fu quindi costretto, nel gennaio del 1860, a richiamare Cavour. Il Conte propose di cedere alla Francia la Savoia e Nizza così da poter ottenere in cambio l’annessione della Toscana e dell’Emilia. Nel mese di marzo si tennero i plebisciti con i quali si chiedeva l’annessione al Regno di Sardegna di Emilia e Toscana; in aprile si votò per cedere alla Francia le province sarde.
Giuseppe Garibaldi, eletto nella circoscrizione di Nizza al Parlamento di Torino, sferrò in parlamento un attacco violentissimo contro il primo ministro che «barattava uomini e popoli» e che per liberare l’Italia dallo straniero l’asserviva ad un altro straniero.
Nell’aprile 1860, il regno di Sardegna comprendeva, dunque, i territori di Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia, Toscana e Sardegna mentre il Veneto era ancora austriaco.

Garibaldi e i mille
Nel 1860 la situazione internazionale era propizia ai disegni di espansione dei Savoia. Come abbiamo già visto, al tavolo delle trattative della guerra di Crimea, al fine di isolare diplomaticamente Ferdinando II, Cavour aveva denunciato l'assenza di libertà nel Regno delle due Sicilie.
Il governo inglese, guidato dal liberale Lord Palmerston, era favorevole alla creazione di uno stato italiano schierato su posizioni liberali, per bilanciare il potere francese nell'area mediterranea. In Inghilterra la fine del potere dei Borboni era ampiamente desiderata. L’ostilità degli inglesi verso il Regno del Sud dipendeva in gran parte dal loro anti-cattolicesimo. C’erano però, anche ragioni economiche e politiche. Ferdinando II, nel 1836, aveva deciso di cedere a società francesi, estromettendo gli inglesi, l'estrazione e la vendita dello zolfo siciliano. Il re inoltre non aveva partecipato alla guerra di Crimea in nome dei buoni rapporti con i russi e aveva impedito che le navi inglesi, nel corso del conflitto, facessero scalo nei porti del regno.
Nello stesso periodo in cui si erano svolti i plebisciti in Toscana ed Emilia, Garibaldi aveva dichiarato che sarebbe partito per conquistare la Sicilia se l'isola si fosse trovata in aperta ribellione. Il 4 aprile era scoppiato un moto insurrezionale a Palermo ma l'insurrezione fu presto fermata. Tuttavia ferventi rivoluzionari mazziniani, come Rosalino Pilo e Giovanni Corrao, avevano deciso di riaccendere questi focolai rivoluzionari per spronare l'eroe dei due mondi a intervenire. Garibaldi, informato dell'andamento dei moti da emissari siciliani, tra cui Francesco Crispi, si convinse a intraprendere l'impresa e perciò arruolò, senza che il governo piemontese lo impedisse, circa un migliaio di uomini. Cavour temeva gli esiti imprevedibili di una simile operazione ma conosceva anche i pericoli che sarebbero derivati dal soffocare il generale entusiasmo verso il progetto di Garibaldi. Egli s’incontrò con Vittorio Emanuele II a Bologna per prendere consiglio. Non si conoscono i particolari del colloquio, ma lo statista e il sovrano decisero di lasciar partire Garibaldi (Pieri, Einaudi, 1962).
Garibaldi poté tranquillamente procedere all'arruolamento di un migliaio di uomini col tacito benestare del governo di Torino. La massoneria raccolse soldi e armi. La compagnia navale Rubattino, di cui il governo sardo era azionista, si fece “rubare” due navi da Nino Bixio, il più prestigioso tra gli ufficiali di Garibaldi. Questa volta non si andava allo sbaraglio come nel caso di Pisacane; Garibaldi era appoggiato da amici potenti (Fasanella - Grippo, 2010, cap. 3).

Il Regno delle due Sicilie viene annesso al Regno di Sardegna. Ecce Italia.
Come è noto, il 6 maggio Garibaldi partì da Quarto (vicino a Genova), giunse nella caserma di Talamone (in Toscana) per fare rifornimento di viveri, armi e polvere da sparo. Mandò uomini verso l’Umbria per far credere di voler marciare verso Roma, mentre il vero obiettivo era la Sicilia. Grazie anche alla protezione di due navi da guerra inglesi, sbarcò a Marsala, vicino a Trapani, dove fu accolto dal popolo come un eroe invincibile. Successivamente Garibaldi si recò a Salemi dove si proclamò dittatore della Sicilia (proclama di Salemi, 14 maggio).
Il 15 maggio, si combatté la battaglia di Calatafimi, vicino al famoso tempio di Segeste: i garibaldini si scagliarono con impeto sul più numeroso esercito borbonico che fu costretto alla fuga. Fu una vittoria del coraggio nudo, in quanto la tattica ebbe scarso gioco nella battaglia e Garibaldi ebbe un limitato controllo sugli eventi. (Mack Smith, 1999, Mondadori) Fu proprio il mito della sua invincibilità, unito alla pavidità del generale borbonico Landi, nonché alle mille deficienze della macchina da guerra napoletana, a favorire il successo di Garibaldi.
A questo punto molti siciliani, credendo di perseguire la semplice indipendenza da Napoli e persuasi dalla promessa del dittatore di dividere i latifondi e distribuire le terre, si arruolarono nel suo esercito.
Alla fine di maggio i garibaldini attaccarono Palermo. La città era allora ancora cinta dalle mura medioevali ed era difesa da almeno 15 mila uomini. Garibaldi, dopo aver attirato con alcuni stratagemmi gran parte dei soldati nemici lontano dalla città, scatenò un violento conflitto a fuoco in cui le camicie rosse diedero una grande dimostrazione di valore.  Alla fine Porta Termini fu sfondata a cannonate e i garibaldini raggiunsero il centro. Dopo alcuni giorni di combattimento, i borbonici, anche a causa dell'insurrezione dei cittadini palermitani, decisero di lasciare la città. I garibaldini si impadronirono di alcuni milioni di ducati del Banco di Sicilia (un ducato corrispondeva a circa 20 euro attuali) che facilitarono parecchio lo sviluppo della spedizione (Guerri, 2010, p.53).
Cavour allora capì che l'operazione poteva avere successo e non impedì più la partenza di rinforzi. Per favorire l'annessione dell'isola al Regno di Sardegna inviò in Sicilia Giuseppe La Farina che, come abbiamo già visto, era stato tra i fondatori della Società Nazionale. Garibaldi gli disse di esser venuto a combattere «per l'Italia a non la Sicilia solo». Così diede ordine di cacciarlo dalla Sicilia. Era una dura risposta all'ingerenza di Cavour (Scirocco, 2005, p. 245).

L’episodio di Bronte e la battaglia di Milazzo
In Sicilia erano i baroni a comandare e solo col loro aiuto l'operazione dei mille sarebbe potuta riuscire. Essi avevano subito appoggiato Garibaldi nella speranza di sostituire i Borbone con un'altra dinastia, perché li ritenevano colpevoli di aver tolto alla Sicilia alcuni privilegi concessi da Ferdinando IV quando si era rifugiato a Palermo per sfuggire a Napoleone. (G. Di Fiore, 2007, p.122) Infatti la leva obbligatoria istituita da Garibaldi si era rivelata una bolla di sapone e furono i baroni a favorire i reclutamenti. Garibaldi aveva promesso la terra ai contadini, ma poi aveva mantenuto poco, limitandosi ad assegnare terre statali ai combattenti. Le masse, però, di loro spontanea iniziativa, cominciarono a scagliarsi con inaudita violenza contro i latifondisti. L'episodio più noto accadde tra il 29 luglio e il 4 agosto nel paesino di Bronte, ai piedi dell’Etna. Qui i contadini avevano ucciso 16 persone tra cui due bambini, mettendo in grave pericolo gli interessi dei latifondisti e degli inglesi. Garibaldi non poteva deludere proprio coloro che avevano favorito la sua impresa. Il 6 agosto arrivò Nino Bixio con due battaglioni di bersaglieri e i moti furono repressi nel sangue.
Il 20 luglio si combatté la battaglia di Milazzo. Alcune navi da guerra borboniche passarono coi garibaldini e spararono dal mare contro la città. «Per otto ore i garibaldini soffrirono le peggiori perdite sino ad allora – ottocento tra morti e feriti, quattro volte di più degli avversari, prima di avere successo. Fu un duro prezzo da pagare per la loro leggenda di invincibilità ma ora erano padroni dell’intera isola e, con un esercito molto più potente, si avviarono verso Napoli» (Mack Smith, 1999, Mondadori).
Se in Sicilia l'incapacità degli ufficiali borbonici si era sommata a sospetti tradimenti, in Calabria per l'esercito napoletano le cose andarono anche peggio. Almeno nell’isola si era combattuto. In Calabria, invece, il generale Fileno Briganti lasciò Reggio ai garibaldini senza sparare un colpo. In seguito, secondo la testimonianza di Giuseppe Cesare Abba, sarebbe stato trucidato come traditore. Molti ufficiali tradirono per pavidità, incompetenza o lusingati dalle promesse di carriera e dal denaro. Alcuni di questi, i più opportunisti, passarono con l'esercito piemontese ma furono presto umiliati, «guardati con diffidenza e messi subito in pensione» (Di Fiore, 2007, pp.149-151).
Napoli era allora la città più popolata d’Italia (terza in Europa) con quasi mezzo milione di abitanti. Il re Francesco II, salito al trono il 22 maggio 1859, aveva rispolverato inutilmente la costituzione che il padre aveva concesso 12 anni prima. Aveva anche nominato il liberale Liborio Romano capo della polizia e ministro dell'interno. Fu proprio costui a spingere il re a lasciare Napoli per Gaeta, onde evitare danni alla città. Romano, già in contatto con Cavour, era un eccezionale esempio di trasformismo. Fu lui, il 7 settembre, a ricevere Garibaldi che giunse a Napoli in treno con pochi uomini e senza sparare un colpo tra il tripudio della piazza. Riportò l'ordine a Napoli servendosi anche della camorra.

La battaglia del Volturno e l'incontro di Teano
Quando Cavour seppe che Garibaldi avrebbe voluto marciare verso Roma e poi su Venezia, strappò a Napoleone III l’assenso per un intervento piemontese teso a bloccare la strada alle camicie rosse. Ottenuto il via libera da Napoleone, egli inviò l’esercito che, senza dichiarazione di guerra, in barba ad ogni principio di diritto internazionale, invase lo stato pontificio (Marche e Umbria) e si scontrò con l’esercito del papa, sconfiggendolo nella battaglia di Castelfidardo (18 settembre). Ormai si erano create le condizioni per ampliare il regno di Sardegna con l'inglobamento del sud Italia. Per fare questo, però, occorreva una guerra tra italiani.
Francesco II, visto lo sfaldamento di parte del suo esercito, aveva deciso di ritirare le forze rimastegli a Gaeta e a Capua per concentrarle e tentare il tutto per tutto. Il primo ottobre i garibaldini combatterono la battaglia del fiume Volturno, la più grande dell’intera campagna. Garibaldi comandava allora più di trentamila uomini che furono contrapposti a circa quarantamila napoletani. Il primo giorno registrò un relativo successo dei napoletani, anche se i garibaldini, con un abile gioco delle riserve, riuscirono a mantenere le posizioni di partenza. Il giorno seguente parte delle truppe piemontesi si unì alle camicie rosse e i napoletani furono definitivamente respinti.
Il 26 ottobre, nei pressi di Teano (vicino a Caserta) Garibaldi incontrò Vittorio Emanuele Il. Il re gli comunicò che da quel momento solo l'esercito regio avrebbe continuato la guerra. Garibaldi dovette quindi cedere le terre conquistate. Esortato da Cavour ad essere generoso con Garibaldi, Vittorio Emanuele II offrì al generale doni e onori, che in gran parte l'eroe rifiutò, accettando soltanto il grado di generale di corpo d'armata.
La guerra contro Francesco II non era però conclusa. Capua fu assediata anche con l'uso dei cannoni rigati, estremamente precisi, senza riguardo per la morte dei civili. Anche a Gaeta si utilizzarono gli stessi metodi e, a partire dal 21 gennaio, i bombardamenti furono intensificati. La popolazione di Gaeta fu decimata dai bombardamenti e dal tifo. I cannoni non risparmiarono neanche gli ospedali (Di Fiore, 2007, pp.154-155). Il 13 febbraio 1861 terminarono le ostilità e la città capitolò con l'onore delle armi. Francesco II e la regina Maria Sofia raggiunsero Roma, ospiti di Pio IX.
La conclusione dell'unità d'Italia fu favorita dall'Inghilterra, che impedì alla Francia e all'Austria di reagire all'annessione dei territori pontifici da parte del re di Sardegna. L'Inghilterra accettava con favore la nascita di un nuovo grande stato che contrastasse le mire egemoniche dei francesi sull'Europa continentale. Le Marche e l'Umbria, così come Napoli e la Sicilia, divennero italiane attraverso plebisciti.
Caduta la cittadella di Messina, ultima sacca di resistenza borbonica, il 17 marzo 1861 l’unità d’Italia fu ufficialmente proclamata dal nuovo parlamento. Per il Veneto e per Roma bisognava ancora attendere.

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